Il pomeriggio del 16 marzo 1966 due studenti e una studentessa del liceo classico Parini di Milano vengono invitati a presentarsi nello studio del sostituto procuratore della Repubblica Pasquale Carcasio. È il momento in cui quella che sembrava poco più di una grana da liceali diventa il «caso della zanzara». A scatenare tanto allarme sono una domanda – «Che cosa pensano le ragazze d’oggi?» – e le relative, ingombranti risposte, stampate nel numero di febbraio de «la zanzara», giornale studentesco del borghesissimo liceo milanese. Quelle poche pagine finiscono per rotolare come pietre e, tra la fine dell’inverno e la primavera del 1966, varcano ampiamente i confini cittadini e anche quelli nazionali. Al centro dello scandalo è un’inchiesta pubblicata dalla smilza rivista, uscita per la prima volta nel giugno del 1945 con un editoriale intitolato La libertà nella scuola. A raccogliere le opinioni delle «ragazze d’oggi» sono il direttore del giornale Marco de Poli, la redattrice Claudia Beltramo Ceppi e un collaboratore, Marco Sassano.
Le domande affrontano i problemi di una società ancora profondamente maschilista, «nonostante un processo evolutivo anche nel campo dell’emancipazione femminile». Indagano in particolare la posizione delle studentesse nei confronti dell’istruzione, «della cultura, della morale, della religione, del matrimonio e del lavoro». Le ragazze interpellate auspicano l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, «libertà sessuale e modifica totale della mentalità». Sostengono che «la purezza spirituale non coincide con l’integrità fisica». La maggior parte si dichiara favorevole all’uso di metodi anticoncezionali durante il matrimonio. Si pronunciano in merito alla recente proposta di legge sul divorzio definita «cauta e limitata», criticano l’ipocrisia come unico collante dei rapporti sociali e personali. Sperano in una vita indipendente. Insomma, rispondono con piglio ma soprattutto autonomia di giudizio, incluse quelle che si dichiarano cattoliche.
A metà febbraio, viene diffuso un volantino per stigmatizzare l’inchiesta, firmato «Pariniani cattolici». L’opinione più accreditata è che sia un’iniziativa dei gruppi di Gioventù Studentesca (il «Giesse» fondato da don Giussani). Seguono le proteste di un gruppo di genitori e il 22 febbraio un articolo del «Corriere Lombardo» a sei colonne rilancia lo «scandalo al Parini».
Fino a quel pomeriggio del 16 marzo, quando i tre vengono convocati al Palazzo di Giustizia. Il sostituto Carcasio decide di sottoporli a una visita per compilare una presunta «scheda minorile medica» che somiglia più a un’ispezione corporale, accompagnata da allusioni alla condotta sessuale dei ragazzi e delle loro famiglie. La ragazza si sottrae e telefona ai genitori.
La visita per la compilazione della cosiddetta scheda minorile è, in effetti, prevista da una vecchia circolare fascista (n. 2326 del 21 settembre 1933): una colonna del modulo deve essere riempita dal medico in concorso con il magistrato. Ma, spiega Giacomo Delitala – che farà parte dell’ottimo collegio dei difensori composto da Alberto Dall’Ora, Carlo Smuraglia, Enrico Sbisà, Alberto Crespi, Giandomenico Pisapia e Vittorio Gaballo – la circolare è da ritenersi annullata dall’articolo 13 della Costituzione. La libertà personale è inviolabile e non è ammessa alcuna ispezione personale se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria nei modi voluti e previsti dalla legge.
Nei giorni seguenti, una lettera di protesta al presidente della Repubblica Saragat, ai presidenti delle Camere, al presidente del Consiglio, ai ministri, viene firmata da intellettuali, politici, giornalisti. Un altro appello al governo e alle autorità è presentato da Giangiacomo Feltrinelli e sottoscritto, oltre che da molti nomi della cultura italiana, da giovani, studenti, operai, impiegati, professionisti, che possono firmare presso le Librerie Feltrinelli di Milano e di Roma ogni giorno dalle 9 alle 20. Nell’appello si nominano anche alcuni giovani recentemente arrestati per la distribuzione di volantini antimilitaristi.
Il 23 marzo duemila studenti del Parini e di altre scuole milanesi, professori inclusi, marciano per la libertà. In giacca, cravatta e gonne sotto il ginocchio. Segue un rinvio a giudizio per direttissima da parte della procura della Repubblica con l’accusa di «oscenità a mezzo stampa e pubblicazione clandestina». Oltre ai tre studenti, tra gli imputati finiscono anche il preside del liceo, Daniele Mattalia, e la titolare della tipografia, Aurelia Terzaghi.
La data del processo è fissata per il 30 marzo. Il dibattimento si tiene nell’Aula magna del Palazzo di Giustizia, ancora ornata di simboli littori, ed è presieduto dallo stesso presidente del tribunale di Milano, Luigi Bianchi d’Espinosa. Di lui «l’Espresso» scrive: «Per i magistrati più retrivi, Bianchi era un personaggio estremamente imbarazzante: viene da una famiglia di vecchia aristocrazia napoletana, e non possono quindi accusarlo di comunismo». Le tre udienze vengono vietate ai minorenni ma sono comunque affollatissime anche per la presenza della stampa internazionale, dal «New York Times» a «Le Monde».
Umberto Segre scrive su «Il Giorno» del 27 marzo 1966: «Come il caso Dreyfus nel 1899 illuminò di un lampo la doppia realtà della Francia che diveniva sempre più repubblicana, ma continuava a essere imbrigliata nelle vecchie carte, così noi oggi torniamo a percepire una rete di residui antidemocratici». Dopo tre udienze il dibattimento si conclude il 13 aprile con una sentenza assolutoria. Il processo e tutto quel che gli accade intorno assumono un valore di cesura, indizi ineludibili per qualsiasi storia dell’Italia repubblicana. Rappresentano il segnale evidente, infatti, che a partire dalla vita quotidiana e addirittura da un liceo «perbene» come il Parini, il principio di autorità e la morale tradizionale cominciano a vacillare.
I giornali scolastici, comunque, erano in pieno fermento e questo caso non resterà isolato, anche se altri avranno meno noie giudiziarie e clamore mediatico. Alla metà degli anni Sessanta l’Italia è ancorata a valori e codici di comportamento tradizionali, mentre il conflitto intergenerazionale non viene intercettato dalla politica. Le famiglie interferiscono nelle scelte dei figli e, soprattutto, delle figlie. Resta soffocante, infatti, il controllo sulle ragazze e sulle donne. Il neologismo «sessuofobia» è sgraziato ma ha salde radici nella quotidianità. E nonostante sia molto in voga (ancora oggi) considerare l’Italia un esempio di arretratezza, la realtà della maggior parte degli altri Paesi dell’Europa continentale non è poi così distante. Come ha scritto la storica Anna Bravo, «i ragazzi non stanno più al posto previsto per loro». Le ragazze ancor meno, e questo è più difficile da tollerare.
D’altra parte il 1966 è lo stesso anno in cui alcune donne del gruppo milanese Demau (Demistificazione autoritarismo) elaborano quello che può essere considerato uno dei primi manifesti del neofemminismo internazionale. È il primo gruppo di donne del tutto autonomo da partiti e organizzazioni politiche. Al centro, la ricerca delle radici dell’oppressione femminile, il vissuto quotidiano, il corpo, la sessualità. È la nascita, di fatto, di una nuova cultura politica, che avrà molte articolazioni. Le donne, le ragazze, e anche una generazione di uomini giovani sono in movimento: perché studiano di più che nel passato e il loro orizzonte si apre grazie a nuovi modi di comunicare e a nuovi consumi culturali. Le mappe mentali mutano anche per la mobilità nello spazio geografico: è una generazione di giovani che partecipa della grande migrazione interna che attraversa l’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Il cosiddetto caso «la zanzara» diventa una tappa obbligata per chi voglia provare a decodificare quel passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta sovente semplificato come un’improvvisa eruzione, strumentalizzato o reso meramente folcloristico. Con uno sguardo anche agli anni Cinquanta, ancora spesso schiacciati sulla sola prospettiva della Guerra fredda e dell’egemonia moderata. Un decennio meno «immobile» di come si racconta, che meriterebbe un approfondimento maggiore. Perché, pur sempre attenti ai momenti di rottura, uno sguardo interpretativo capace di disegnare genealogie aiuta anche a sfuggire alle semplificazioni di un eterno presente.
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