È un ordinario martedì d’autunno quando McDonald’s apre il suo primo ristorante sul suolo italiano. Il 15 ottobre 1985, nella piazza centrale Walther von der Vogelweide di Bolzano, il doppio arco giallo simbolo della maggiore catena di ristoranti fast food del mondo accoglie i suoi primi clienti. Di lì a poco, nel marzo del 1986, McDonald’s aprirà nella capitale, a Piazza di Spagna, quello che da molti è ancora considerato il primo McDonald’s italiano. L’apertura a Roma, a lungo desiderata dai vertici del colosso americano della ristorazione veloce, ottiene un successo commerciale indubbio e immediato, testimoniato dalla presenza di oltre 4.000 persone per la sola mattina dell’inaugurazione. E, tuttavia, suscita anche una vera e propria ridda di proteste: McDonald’s non solo rappresenta una sfida alla tradizione culinaria italiana, ma è anche, in termini generali, il simbolo più visibile della globalizzazione consumistica – uno stile di vita capace di soppiantare le tradizioni consolidate e la lentezza creativa, la specificità culturale delle comunità locali e la sostenibilità dei territori.
Sicuramente la storia della diffusione di McDonald ci aiuta a pensare all’evoluzione del così detto “capitalismo di consumo”, ossia una fase avanzata dello sviluppo capitalistico dove l’omologazione e la velocità sembrano farla da padrone. Per molti, come ha scritto il sociologo americano George Ritzer, il mondo alla McDonald’s ha un effetto disumanizzante, configurandosi come l’ultima estrema espressione di un processo di razionalizzazione che si fonda sull’articolazione di quattro principi dell’organizzazione produttiva: l’efficienza, la prevedibilità, la calcolabilità e il controllo, tramite la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine. Il modello McDonald’s ha investito molte altre catene globali fuori e dentro la ristorazione. Le catene globali – di origine americana, ma non solo – consentono ai consumatori del Nord globale di acquistare prodotti a costi relativamente bassi, prodotti standardizzati, fruibili semplicemente e rapidamente. In qualche modo, rendendo il consumo facile, svelto e a buon mercato, contribuiscono a ridurre le nostre competenze di consumatori. In effetti è questo che venne rimproverato a McDonald’s nel momento del suo ingresso in Italia, e le proteste furono l’occasione per aggregare le forze intorno a quel movimento per la buona tavola – buona, pulita e giusta – che sarebbe diventato Slow Food.
La diffusione dei McDonald’s su scala mondiale ha peraltro stimolato numerosi focolai di resistenza che hanno spesso assunto dimensioni globali, ma che premono per il controllo locale delle risorse e una maggiore attenzione alla sostenibilità dei consumi. Movimenti che nascono dal locale, e che promuovono il locale a livello internazionale come Slow Food, ci mostrano come la globalizzazione non sia puramente una forma di McDonaldizzazione. Globalizzazione e localizzazione si sostengono a vicenda, perché è proprio con la diffusione omogeneizzante di prodotti standardizzati verso il basso che si rinnova la domanda opposta: una domanda di qualità, di rispetto delle diversità culturali e di attenzione alle tematiche della sostenibilità ambientale, troppo spesso calpestate dalle multinazionali se non per cosmetiche operazioni di greenwashing.
In effetti, la globalizzazione ha reso più scoperte le conseguenze del mercato capitalista, mettendo in luce questioni più squisitamente etiche e politiche – come le disuguaglianze tra i consumatori e la necessità di politiche redistributive o le conseguenze a lungo termine delle attuali procedure economiche sull’ambiente. Introducendo innovazioni che alterano le abitudini di consumo, incentivando la concentrazione economica, ampliando le comunità umane di riferimento, promuovendo uno scollamento tra processo economico e processo socio-culturale, la globalizzazione apre dunque anche uno spazio per mettere in discussione i confini naturalizzati e cristallizzati del mercato. Il mercato stesso appare meno naturale e neutrale, meno aperto e ben funzionante, meno capace di garantire alternative vantaggiose per tutti. E proprio perché diventa più evidente che non c’è nessun altro posto dove andare al di fuori del mercato, cresce la richiesta di intervenire sulla sua forma, sui suoi confini, e sulle sue regole.
Così, la spinta verso il consumismo ha dato luogo a una spinta contraria, verso la responsabilità negli acquisti, e si sono moltiplicate le iniziative di consumo critico, che sottolineano come anche con le piccole scelte quotidiane si possano contribuire a plasmare la cultura e l’economia – i boicottaggi di consumo, il commercio equo e solidale, i gruppi di acquisto locali che incentivano l’agricoltura sostenibile, la finanza etica, e così via. Questa rinnovata consapevolezza dell’importanza delle proprie scelte quotidiane incontra le politiche pubbliche a favore della sostenibilità ambientale e della salvaguardia dei prodotti tipici, ma si scontra con lo strapotere delle multinazionali che sempre più internalizzano i controlli e le certificazioni etiche e ambientali. Nel complesso, le catene globali implicano una crescente concentrazione delle risorse produttive nelle mani di pochi e sono ispirate a un efficientismo che tende a eliminare sistematicamente la tradizione e l’incanto dell’imprevisto, dello specifico e del territorio. Promuovono fantasie consumistiche, quelle delle occasioni a poco prezzo, e sviliscono la ricchezza delle relazioni che accompagnano le cose e le loro tradizioni. In questa situazione anche la tendenza a rivalutare le tradizioni locali potrebbe apparire vana: i prodotti tradizionali e locali sarebbero destinati a rimanere marginali o a essere assimilati dall’organizzazione razionale della produzione e trasformati in nuove merci standardizzate. E tuttavia il mercato sembra lasciare spazio anche a tendenze differenti. Accanto alle catene standardizzate a basso costo, infatti, si sviluppano catene che puntano su qualità, specificità e unicità dei prodotti.
Ma il pubblico chiede anche prodotti autentici, originali, personalizzati. Ed ecco che il globale si localizza. Gli stessi McDonald’s si adattano ovunque alle condizioni, ai gusti e alle abitudini locali, modificando i menù, adattando gli arredi e le modalità di approvvigionamento, e così via. Con il suo continuo rimando alla localizzazione, la globalizzazione implica dunque un cambiamento della cultura locale, ma anche un aggiustamento degli standard operativi dell’azienda che arriva su un territorio. In definitiva, la globalizzazione non è solo omogeneizzazione, ma anche eterogeneizzazione: espone le realtà a numerosi flussi di merci globali, tanto che ciascuna realtà locale finisce, nel suo complesso, per avvicinarsi a una maggiore varietà di possibilità. Sta ai consumatori non solo lavorare sulle proprie scelte per consumare in modo più responsabile, ma anche chiedere alle istituzioni politiche di intervenire nell’economia perché la globalizzazione si realizzi in modo più ricco, giusto e sostenibile. E quel 15 ottobre sta lì a ricordarcelo.
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