È 15 luglio 1989 e i Pink Floyd, dal bacino di San Marco, inondano Venezia di musica rock. È la notte del Redentore, a mezzanotte esplodono i consueti fuochi d’artificio che onorano la festa delle feste veneziane (si veda S. Lorrain, S. Marini, e L. Szacka, Le Concert. Pink Floyd à Venise, Éditions B2, 2017).
A Momentary Lapse of Reason è il titolo della tournée mondiale in cui si colloca l’imprevista tappa nella città di laguna del gruppo inglese, composto in parte da ex-studenti di Architettura (Nick Mason, Richard Wright, Roger Waters sono stati iscritti alla London Polytechnic di Regent Street, oggi Faculty of Architecture and Built Environment della Westminster University). Il palco montato su zattere è una monumentale cattedrale tecnologica di 24 per 96 metri in pianta e 24 metri in alzato. Collocato a 200 metri dalla piazzetta di San Marco, si fa inquadrare dalle due colonne che dal 1172 segnano la porta a mare della città. Rivolto verso il lato corto del palazzo Ducale, dà le spalle alla chiesa del Redentore. Nel suo retro è collocato il backstage, anche questo chiaramente flottante.
L’architettura del palco è impostata su una tipologia canonica, non presenta dispositivi spaziali sperimentali come quelli progettati, anche per i Pink Floyd, da Mark Fisher, l’architetto del rock (E. Holding, Mark Fisher: Staged Architecture, Wiley Academy, 2000). Il dato eccezionale risiede nella sua posizione fisica e culturale: la struttura metallica e sonora è giustapposta per 24 ore ai secolari monumenti veneziani e insiste sul crocevia d’acqua più importante del centro storico. Intorno al grande volume galleggiano innumerevoli barche di ogni tipo in attesa del concerto e della successiva sinfonia di fuochi d’artificio. La città è assediata da 200.000 persone, ne erano previste 50.000 – il concerto è gratuito –, e 150 milioni sono i telespettatori che assistono allo spettacolo: si tratta del primo concerto rock trasmesso a Berlino Est, dove pochi mesi dopo cadrà il muro (T. Gastaldi, Lo show del secolo: i Pink Floyd a Venezia, Free Media, 2006).
Nel solito buio di una Venezia attonita, scalfito da inattese linee e masse di luce fluo, alle 21.45 le note di Shine on you Crazy Diamond zittiscono la folla. Delle 23 canzoni previste ne vengono escluse 9 per rispettare i tempi televisivi che prevedono 90 minuti di concerto. Run Like Hell chiude la performance che lascia spazio al consueto lungo spettacolo di fuochi d’artificio.
La città da dentro appare assediata da persone, barche, musica, dal moltiplicarsi di tempi – il tempo di una quinta effimera nel tempo di una realtà architettonica che sfida l’eterno – e linguaggi come quello del pagano rock che anticipa la più importante festa religiosa di Venezia. Agli spettatori televisivi, da New York a Mosca, è offerta una scena che non si ripeterà: la città storica più fragile e più copiata al mondo è consegnata per una notte a suoni e a modi di vivere “estranei”. I consueti partecipanti della festa del Redentore, cittadini della laguna e turisti, sono mescolati a giovani fan del gruppo inglese arrivati da tutta Europa e agli abitanti della terraferma che per una notte conquistano Venezia.
La città da dentro appare assediata da persone, barche, musica, dal moltiplicarsi di tempi e linguaggi come quello del pagano rock che anticipa la più importante festa religiosa di Venezia
La grande e fugace cattedrale che dall’acqua sprigiona suoni e luci è pensata da Fran Tomasi, organizzatore del concerto, non come un unicum ma come il set del primo di una serie di eventi per riempire l’intervallo di tempo che separa la collocazione delle barche nel bacino di San Marco e l’arrivo nella notte dei fuochi del Redentore. L’architettura effimera si propone qui di riempire uno spazio ma anche un tempo di attesa solitamente lasciato vuoto. A Venezia nei secoli sono sempre state erette architetture effimere, considerandole parte integrante della sua stessa natura e strumenti per convivere con una densità di visitatori sempre diversa, tra notti selvagge e albe deserte.
Nel percorso dei Pink Floyd il concerto veneziano non rappresenta un caso isolato: altre tappe segnano la ricerca di un confronto con la Storia. Da Pompei, dove nel 1971 suonano in un anfiteatro senza spettatori, ai concerti tenuti a Versailles nel 1988 e in Potsdamer Platz a Berlino nel 1990, il gruppo inglese verifica la propria scrittura progressiva non solo in luoghi bui e astratti lontani dalle città, ma mettendola in reazione con l’architettura secolare.
Mai più così! è il titolo della prima pagina de “Il Gazzettino” il 18 luglio 1989, sovraimposto a una foto di piazza San Marco inondata di rifiuti il giorno dopo il concerto. Lo stesso slogan è usato da Fran Tomasi, organizzatore dell’evento veneziano, in un manifesto che tappezza la città il 15 luglio 1990, in questo caso il titolo è usato per sottolineare l’impossibilità che lo spettacolo si ripeta. Lo sciopero degli spazzini i giorni successivi al concerto, quello dei mezzi di trasporto pubblico la sera stessa, che obbliga i presenti a un’odissea, marchiano l’immaginario di quell’ultima notte sia dentro sia fuori l’isola. Mai più così! riecheggia diventando un unico coro: Emilio Vedova chiede che Venezia non accetti di vivere un carnevale eterno, rileva il brutale trattamento riservato ai monumenti e ai giovani che hanno invaso la città. Nel 1993 Manfredo Tafuri inaugura l’anno accademico all’Istituto universitario di Architettura di Venezia con la lezione Le forme del tempo: Venezia e la modernità attaccando usi impropri della città storica come il concerto e l’ipotesi che il comune di Venezia ospiti l’Expo del 2000. Alcuni protagonisti della confusa vicenda politica, che porta all’autorizzazione da parte dell’amministrazione a tenere il concerto del secolo a Venezia, considerano strettamente connessi i due eventi citati da Tafuri. Gli stessi attori e testimoni attribuiscono sia la disponibilità a dar luogo al concerto sia il suo “sabotaggio” al conflitto presente in città e nella politica nazionale tra i fautori della candidatura della città lagunare all’esposizione del 2000 e chi la osteggia. Altre fonti negano il nesso e rileggono l’accaduto come un a momentary lapse of reason.
Mai più così! è il titolo della prima pagina de “Il Gazzettino” il 18 luglio 1989, sovraimposto a una foto di piazza San Marco inondata di rifiuti il giorno dopo il concerto
Il concerto chiude “simbolicamente” una stagione della architettura effimera: strumento politico per rianimare le città segnate dagli anni del terrorismo, come ad esempio l’Estate romana che prende corpo dal 1970 al 1979 nella capitale, e per costruire comunità, come nelle feste dell’Unità – di cui Fran Tomasi era uno degli organizzatori – raccontate dai grandi fotografi italiani come città temporanee (G. Bizzarri, L. Ghirri, G. Ottolini (a cura di), Notte e dì, immagini di settembre della Festa nazionale dell’Unità, Reggio Emilia 1983, Il Quadrante, 1984).
In questi anni a Venezia, dove il numero dei residenti continua a precipitare, si ragiona sulla definizione di un numero chiuso di ingressi: una delle ipotesi insiste sull’uso dei tornelli affiancati a modalità di prenotazione per stabilire chi e quando potrà entrare nel centro storico e poi in piazza San Marco. È annunciata da una ditta privata, per l’ennesima volta, l’intenzione di riesumare a San Marco la terza colonna, inabissatasi nel canale durante le fasi di scarico nel lontano 1172, che modificherà, forse, l’assetto secolare della piazzetta. Venezia, in pratica, resta il luogo paradigmatico in cui si decide l’uso della storia, il campo di un continuo combattimento tra persistenza e cambiamento in latenza.
A distanza di più di trent’anni da un concerto doppiamente eccezionale, tanto sorprendente quanto irripetibile, restano i suoi significati e moniti universali. L’evento solleva dal punto di vista culturale ma anche architettonico questioni importanti: il senso del tempo che passa, la fragilità del patrimonio, i diversi significati locali e mondiali che può assumere un evento, le invasioni più o meno pianificate di un territorio urbano, i conflitti tra interessi politici o generazionali, i diversi modi di “usare” una città e il problema dei grandi numeri (oggi anche di quelli estremamente bassi). La televisione, la politica, il patrimonio, l’idea di città, l’architettura effimera e la musica rock si intrecciano “intimamente” tra loro in questa vicenda che ha disegnato le soglie del nuovo millennio.
Riproduzione riservata