Fu un anno molto particolare il 1951 tanto da essere fin da subito ribattezzato come l’anno delle acque cattive. Una definizione più che azzeccata, a rileggere l’andamento e l’intensità delle piogge durante quei dodici mesi (come si racconta nel volume firmato da chi scrive e da Mihran Tchaprassian). In effetti, da gennaio ad agosto tutta l’Italia centro-settentrionale, dal Ferrarese alla Valtellina, dal Comasco al Trentino, dal Piemonte alla Toscana, all’Umbria fu bersagliata da un susseguirsi di nubifragi, di torrenti e di fiumi impazziti, di frane e smottamenti. Poi, agli inizi di ottobre, un afflusso d’aria fredda dall’Atlantico si scontrò con un fronte caldo proveniente dalla Tunisia, innescando una perturbazione che interessò la Sardegna, la Sicilia e la Calabria. Bilancio finale: centodieci morti, diecimila senzatetto e l’evacuazione di quattro paesi. Ma non era finita lì. Il 14 novembre, dopo settimane di piogge incessanti, il Po ruppe gli argini e sul Polesine, un territorio che qualcuno definiva «un angolo d’Africa a pochi chilometri da Bologna e da Venezia», si abbatté quella che passerà alla storia come l’alluvione per antonomasia dell’Italia repubblicana. E non solo per le proporzioni dell’evento, ma anche per il fatto che interessò una provincia «rossa» (quella di Rovigo) nel contesto di una regione «bianca» (il Veneto) in un momento di accesa dialettica fra filo-occidentali e filo-sovietici, con scambi di accuse e toni pari a quelli che tre anni prima avevano caratterizzato la campagna per le elezioni politiche.
Il 21 dicembre, il ministro democristiano Amintore Fanfani provò a calmare le acque e a rassicurare tutti, ma fece l’effetto contrario. Quel giorno, «davanti a quella parte» della Camera che dimostrava «di interessarsi» alla questione, ripercorse le esondazioni e le mareggiate che si erano succedute nei mesi precedenti e, regione per regione, snocciolò danni e stanziamenti, proposte di legge e buoni propositi, quasi a voler spazzar via qualunque fraintendimento sull’operato del Governo. Ma forse lo fece con troppa enfasi e con troppa supponenza, perché, invece di placare gli animi, provocò un botta e risposta senza esclusioni di colpi, con una parte che accusava l’altra di prendersi cura degli alluvionati per indottrinarli alla fede marxista, mentre gli altri ribattevano che «i preti uccidevano i bambini per spedirli in paradiso». E se una parte sosteneva che gli altri erano soltanto degli speculatori e degli sciacalli che approfittavano delle disgrazie, l’altra parte rispondeva che se fino ad allora «c’erano bambini che dormivano sulla paglia», ora quei bambini non avrebbero più avuto nemmeno la paglia. Ma, paradossalmente, anche grazie a queste diatribe ideologiche, sul Polesine allagato non calò il silenzio, ma una solidarietà fino ad allora impensabile in quanto a modalità e dimensioni.
Era la vigilia di Natale dell’anno che aveva celebrato il novantesimo anniversario dell’Unità d’Italia e la prima edizione del festival di Sanremo, l’anno dell’ottava sessione del Consiglio Atlantico (che si svolse a Roma proprio qualche giorno dopo la rotta di Occhiobello), dei «partigiani della pace» e dei «celerini» del ministro Scelba, del beneplacito di Pio XII al metodo di Ogino e Knaus e della guerra coreana sul 38° parallelo. Il tutto mentre sull’Italia aleggiava un clima da Guerra Fredda da cui neppure il Polesine invaso dall’acqua rimase immune. Tutt’altro, perché se per i filogovernativi l’alluvione era stata provocata dall’inclemenza della natura e dalle piogge fuori del comune, per le opposizioni la responsabilità dipendeva «dall’inerzia con cui il Governo aveva affrontato i problemi dei lavori pubblici» e su cui ora ricadeva l’obbligo di «riparare i danni e rendere impossibile il ripetersi di tali sciagure periodiche». Non con pala e piccone, ma con mezzi meccanici moderni e appropriati, anche a costo di attingere a quei «fondi intoccabili» (duecentocinquanta miliardi di lire) che l’Italia, in quanto aderente al Patto Atlantico, doveva destinare alle spese militari. Insomma, un rinfacciarsi di «accuse e contraccuse per i ritardi e gli sprechi» che, a detta di Angelo Del Boca, avrebbe fatto scuola, fino a diventare lo «spettacolo indecente» di ogni calamità.
Si assistette a un rinfacciarsi di “accuse e contraccuse per i ritardi e gli sprechi” che, a detta di Angelo Del Boca, avrebbe fatto scuola, fino a diventare lo “spettacolo indecente” di ogni calamità
Ma cos’era successo nel Polesine? L’alluvione aveva colpito trentasette comuni, ‘distrutto 714 abitazioni e ne aveva danneggiate 2.538. Questo almeno secondo il Genio Civile, perché per il Presidente del Magistrato alle acque le cifre erano diverse: 835 le «case urbane» distrutte e 3.000 quelle danneggiate; e fin qui grosso modo i numeri collimavano, ma solo perché non erano state prese in considerazione le «numerosissime case rurali pure danneggiate o distrutte». Di fronte a tutto questo le vittime dell’alluvione furono «soltanto» un centinaio, poco più di quante se ne erano avute un mese prima in Calabria nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica! Sul Polesine invece erano piombati i politici degli opposti schieramenti e i corrispondenti delle principali testate giornalistiche nazionali e internazionali. Così quei 100 mila ettari di terra sott’acqua e quei 200 mila sfollati entrarono nell’immaginario collettivo e provocarono un’ondata di emozioni paragonabile soltanto a quanto era successo in occasione del terremoto di Messina. Basti pensare che il «New York Times», per far capire ai lettori le proporzioni del disastro citò proprio il sisma del 1908, mentre l’inviato del «Los Angeles Times», descrisse la situazione facendo leva su un titolo di scespiriana memoria: Romeo and Juliet City Threatened by Floods e il canadese «The Globe» allertò la curiosità dei lettori con un articolo ad effetto: Ventimila alluvionati in trappola attorno alla Cattedrale (che poi era quella di Adria). Inoltre, per conto degli United States, «La Settimana Incom» confezionò un documentario, Storm over Italy, della durata di dodici minuti e mezzo che iniziava con un inequivocabile: «Sono Frank Gervasi e vi parlo da Roma». Il commentatore, probabilmente un oriundo italiano, spiegava ai suoi conterranei il Polesine allagato: famiglie sui tetti e famiglie senza un tetto, bambini senza genitori e genitori che avevano perso tutto e, naturalmente, i tempestivi soccorsi dei militari statunitensi. «Ai contribuenti americani» Gervasi ricordava poi il legame che la nazione aveva con l’Italia e i dollari che con il Piano Marshall avevano già elargito al popolo italiano «per costruire un forte partner e amico democratico» e, a questo proposito, lanciava un altro appello: «Adesso e per il prossimo anno» l’Italia aveva ancora «bisogno di tutto l’aiuto possibile» perché «la ricostruzione sarebbe stata lunga e difficile», ma - concludeva Frank Gervasi -, no problem, c’era da fidarsi, «gli italiani, lo sappiamo, lavoreranno duro».
Quei 100 mila ettari di terra sott’acqua e quei 200 mila sfollati entrarono nell’immaginario collettivo e provocarono un’ondata di emozioni paragonabile soltanto a quanto era successo in occasione del terremoto di Messina
Nel giro di due mesi sul Polesine imbevuto d’acqua e semideserto di abitanti si riversarono ottocento tonnellate di indumenti, coperte, generi alimentari, medicinali, sigarette e tanti, tanti soldi. Trentacinque miliardi furono stanziati dallo Stato con un’addizionale su alcune imposte e con l’emissione di buoni del tesoro novennali; la «catena della fraternità» raccolse un miliardo e trecentocinquanta milioni; la Croce Rossa donò trecento milioni; la Confindustria due miliardi e un monito infarcito da un pizzico di polemica: «Le vuote parole di solidarietà o le recriminazioni o, peggio ancora, le speculazioni a nulla servono: occorre dare, e largamente dare». Poi ci fu la partecipazione di ottantadue paesi di tutti i continenti, sicché, alla fine, il bilancio della solidarietà ammontò (così si disse e si scrisse) a sessantatré miliardi e cinquecento milioni di lire dell’epoca: cinquanta miliardi dall’Italia; tredici dalle «nazioni del mondo libero» e infine mezzo miliardo da «altri Paesi», che poi, per intenderci, erano quelli al di là della cortina di ferro: Unione Sovietica, Jugoslavia, Albania, Corea del Nord. Un fiume di generi di prima necessità e di denaro che evidentemente però non aveva toccato tutti gli alluvionati se nel 1977 alcuni si accorsero di non aver ricevuto nessun indennizzo e rivolsero al Ministero dell’Interno un’istanza per reclamare ciò che altri avevano ottenuto.
Ma ormai erano passati ventisei anni, il 1951 era lontano e l’alluvione era una storia vecchia: a quel punto chi aveva dato aveva dato, chi aveva avuto aveva avuto.
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