Siamo nella seconda metà degli anni Novanta e, nell’opinione pubblica e politica italiane, imperversa il dibattito su un protocollo di cura contro tutti i tipi di tumore. Si tratta di un metodo, o multiterapia, detto Di Bella (Mdb), dal nome del medico che lo inventò, Luigi Di Bella (1998-2003). Siciliano di nascita, Di Bella lavora a Modena, prima come professore universitario, poi in attività privata, trattando dal 1977 pazienti oncologici con questo protocollo che non ha, tuttavia, prove di efficacia.

A seguito dell’attenzione posta dai media sulla sua terapia, il ministero della Sanità decise di sperimentarlo per dirimere la controversia. Il 13 novembre 1998 l’Istituto superiore di sanità comunicò ufficialmente i risultati del trial multicentrico cosiddetto di fase 2 (senza gruppo di controllo) comprendente 11 diversi studi. Dei 386 pazienti con vari tipi di tumore in stadio avanzato trattati con il Mdb e monitorati per esiti di tossicità e remissione della malattia, nessuno ottenne una completa remissione e 3 mostrarono piccole riduzioni della massa tumorale; mentre si verificarono effetti indesiderati soprattutto nei pazienti con tumori del sangue. Con un tasso di risposta dello 0,8% e una tossicità non trascurabile, si concluse che il Mdb fosse inefficace e non tale da giustificare una sperimentazione ulteriore, cioè uno studio randomizzato controllato. I risultati e la discussione vengono pubblicati qualche mese più tardi da una delle principali riviste scientifiche in campo medico, il "British Medical Journal".

Ripercorriamo brevemente le tappe della vicenda. Il Mdb consiste nella somministrazione di farmaci in dose variabile, a seconda del tumore e del singolo paziente: prevalentemente somatostatina, melatonina, bromocriptina e vitamine. A partire da luglio 1996 un gruppo di associazioni di malati si attiva per promuovere la visibilità del metodo e del suo inventore, riuscendo a ottenere notevole attenzione. Il professor Di Bella – molto anziano, capelli bianchi, pacato, del tutto privo di ostentazioni di potere e ricchezza – comincia ad apparire frequentemente in televisione e sulla stampa sostenendo di avere prove di ottimi risultati e illustrando in modo sufficientemente credibile i meccanismi di azione dei vari componenti della terapia. Nel dicembre 1997, dato che la somatostatina era ed è molto cara sul mercato, una famiglia non abbiente chiede e ottiene dal pretore di Maglie che il Servizio sanitario nazionale rimborsi la spesa del Mdb per il proprio bambino, malato di tumore al cervello. In assenza di studi pubblicati in sedi riconosciute sull’efficacia e nemmeno sulla sicurezza del Mdb, l’Istituto superiore di sanità chiede a Di Bella le cartelle cliniche dei suoi tanti pazienti, ma non le ottiene (arriveranno nel giugno 1998, a sperimentazione ultimata, ma sono incomplete e non utilizzabili come evidenza).

Si scatena così il dibattito tra i “dibelliani” e i “ministeriali”, che crea per diversi mesi un tira e molla di autorizzazioni e divieti; le regioni Lombardia, Calabria e Piemonte seguono la Puglia nel farsi carico del Mdb. L’arena è mediatica, come si è detto, ma è anche politica, con grandi manifestazioni di piazza e la contrapposizione tra le forze che appoggiano Di Bella (partiti di destra e centrodestra, in parte il Vaticano) e principalmente il Partito democratico della sinistra, rappresentato dalla figura della ministra Rosy Bindi, che lo avversa. Il ministero della Salute si risolve infine a stanziare fondi e risorse per una sperimentazione su più ampia scala possibile, che appunto termina il 13 novembre del 1998. Com’era prevedibile, tuttavia, i dibelliani non riconoscono la significatività del risultato, opponendo varie ragioni metodologiche sulle caratteristiche dello studio multicentrico, e infine affermando che comunque il Mdb non è un protocollo standardizzato, bensì personalizzato sul singolo paziente – aspetto, questo, che nessun trial di quel tipo potrebbe mai garantire.

Il ministero della Salute si risolve infine a stanziare fondi e risorse per una sperimentazione su più ampia scala possibile, che appunto termina il 13 novembre del 1998. Com’era prevedibile, tuttavia, i dibelliani si oppongono alla significatività del risultato

Il dibattito sul Mdb offre vari spunti di approfondimento, in quanto caso di studio ideale per la sociologia e per la filosofia della medicina, per le scienze della comunicazione e per chi si occupa di diritto in ambito sanitario. Si può leggere come esempio di un pattern ricorrente, che si ritrova nella vicenda Stamina in Italia (la supposta cura per malattie neurodegenerative a base di cellule staminali somministrata dal sociologo Davide Vannoni fino al 2014), e la discussione sull’efficacia dell’idrossiclorochina come farmaco contro il Covid, che ha visto in Francia l’opposizione tra il celebre microbiologo Didier Raoult, che l’ha sostenuta, e gran parte della comunità scientifica. Il pattern comprende il conflitto tra medicina ufficiale e trattamenti alternativi, politicizzazione, polarizzazione mediatica e personalizzazione dei protagonisti. Si noti, per inciso, che, diversamente da Stamina, che non esiste più, e come invece la controversia sull’idrossiclorochina, il Mdb è ancora una realtà: viene infatti ancora somministrato dai figli di Luigi Di Bella e da terapeuti non allineati al consenso scientifico. In tutti questi casi, le domande che si aprono alla riflessione accademica e anche pubblica sono tante: è giusto che lo Stato si faccia carico di un intervento non provato, o investa per testare un’ipotesi già poco robusta? Quali sono i limiti alla libertà di cura? La medicina ufficiale, con le sue regole metodologiche, soffoca i possibili underdog geniali (per usare un’espressione tornata in auge in questi giorni), o invece ci protegge da ciarlatani avidi, o comunque da tentativi potenzialmente nocivi? È possibile parlare di norme o di un’etica per la comunicazione giornalistica o anche sui nuovi media, riguardo alle questioni di salute e sanità? La medicina completamente democratica, con un ruolo centrale delle associazioni dei pazienti e degli “esperti per esperienza” è sempre migliore?

Oltre a segnalare queste questioni, isoliamo qui tre temi per i quali vale la pena non dimenticare la vicenda Di Bella, e anzi studiarla di più. Il primo è epistemologico e si può chiamare “rigore metodologico opportunista” o “doppio standard”. I sostenitori del Mdb si sono opposti ai risultati dello studio promosso dal ministero della Sanità inizialmente criticando i criteri di selezione dei pazienti, la poca rappresentatività del campione e anche il fatto stesso che ci si sia limitati a un trial di fase 2, anziché procedere a una sperimentazione randomizzata: hanno cioè rivolto in maniera iper-rigorosa allo studio “ostile” quegli standard di metodo che di fatto e forse anche per principio essi stessi non applicano. La stessa dinamica si trova nella critica di Raoult alle sperimentazioni che hanno mostrato la non efficacia dell’idrossiclorochina contro il Covid, nonché in alcune istanze di opposizione anti-vaccinista, che consistono nel sottolineare le minime debolezze dei trial condotti o dei processi di approvazione. Quello del doppio standard, tuttavia, è un artificio retorico, non un buon procedimento epistemico: un’ipotesi non si sostiene (solo) mostrando le possibili lacune degli studi che la smentiscono. Ma occorre avere gli strumenti per accorgersi di questo.

Nonostante tutto, il Metodo Di Bella è ancora somministrato. Quali sono dunque i limiti alla libertà di cura? La medicina ufficiale soffoca i possibili underdog geniali o invece ci protegge da ciarlatani o comunque da tentativi potenzialmente nocivi?

Il secondo tema è la valenza moralizzante dell’etichetta di “medicina personalizzata”, contrapposta alla standardizzazione dei protocolli che è tipica dell’assistenza sanitaria odierna. La prima sarebbe buona, perché evoca valore della persona singola e il recupero del rapporto umano di conoscenza tra medico e paziente, mentre la standardizzazione sarebbe cattiva, perché nega entrambi. In realtà il mantra della cura che dev’essere come un vestito tagliato a misura della persona si sente da molti anni, ma è potenzialmente ambiguo. Da un lato è l’esposizione semplice di un insieme di tecniche molto precise, come la profilazione genetica, molecolare o degli stili di vita del paziente, che permette trattamenti quasi unici per il suo caso. In questo senso la medicina personalizzata è una tendenza all’interno della medicina ufficiale completamente conforme agli standard di ricerca vigenti, che viene indicato come il futuro della medicina ufficiale. Qui, tuttavia, lo spazio per l’arbitrio (o l’arte) del singolo clinico è limitato come nel caso degli interventi tradizionali basati sull’evidenza, solo che i parametri di classificazione del paziente sono di più e più precisi. Ma quando i “dibelliani” insistono che il Mdb è medicina personalizzata e non si riduce alla somministrazione dello stesso protocollo a tutti i pazienti non intendono questo, perché i parametri per la personalizzazione non ci sono, o non sono accessibili: la scelta dell’intervento si fa “a occhio”, cioè con l’occhio clinico del medico inteso come artista e guaritore, che ha il massimo arbitrio o spazio sulle scelte. Questo tipo di arbitrio, che diventa anche autorità assoluta del medico guaritore, non è un valore da ricercare o preservare; è anzi ciò da cui la medicina deve liberarsi per essere trasparente e credibile, e quindi autorevole.

Il terzo tema è la fiducia nella medicina e nei suoi interventi, che possiamo definire strumentalmente un bene pubblico – dato che è funzionale agli interventi di salute pubblica. La fiducia è influenzata dalla vulnerabilità di chi la offre e dalla credibilità di chi la riceve, e le sue basi sono un’attribuzione di competenza (“saprà aiutarmi”) e di benevolenza (“farà il mio bene”). Il caso Di Bella mostra come l’opinione pubblica tenda a dare fiducia al personaggio del medico come curatore (possibilmente un uomo non giovane, con un tipico aspetto), piuttosto che alla scienza medica e alle sue istituzioni – si pensi a come virologi e immunologi durante la recente pandemia abbiano eclissato la voce del ministero della Salute e della stessa Organizzazione mondiale della sanità.

Tuttavia, solo nella complicata macchina della valutazione tra pari e non nel giudizio del singolo medico, per quanto illuminato, si può cercare una garanzia di oggettività riguardo a ciò che fa bene o male alla salute. Uno dei fattori della poca fiducia nella ricerca medica è l’incomprensione dei suoi meccanismi – i complicati trial, la gerarchia delle evidenze, la differenza tra una serie di casi favorevoli e uno studio sperimentale o osservazionale; sulla base di questo, un investimento nell’istruzione scolastica e universitaria sulla ricerca scientifica e i suoi metodi (dopo Bacone e Popper) potrebbe aiutare.