La storia dei trapianti è fatta di accidenti. Il 12 giugno del 1992 moriva Ilario Lazzari, il primo a ricevere un trapianto di cuore in Italia. Moriva per un’infezione Hiv-relata, contratta per via trasfusionale. Un anno prima era morto in un incidente autostradale Vincenzo Gallucci, il cardiochirurgo che lo aveva operato. Il caso ha collegato bizzarramente uno dei grandi successi della medicina, la pandemia più eclatante del secolo scorso, e una delle maggiori cause di mortalità evitabile nelle società industriali.
Morte e vita sono inestricabilmente legate, nella natura come in quella singolare ridefinizione della natura che è il trapianto d’organi. Quando si preleva un organo per trapiantarlo, il cuore deve ancora battere e il sangue circolare. E ancora batteva il cuore del diciassettenne trevigiano Francesco Busnello, anche lui morto sulla strada, quando fu trapiantato su Lazzari, nella notte fra il 13 e il 14 novembre 1985, a Padova. Non era stato facile arrivare a quell’intervento. Un’occasione s’era presentata pochi mesi prima, ma Costante Degan, ministro della sanità nel governo Craxi, non aveva firmato il decreto: ed era dal 1978 che Gallucci, formatosi con DeBakey a Houston, chiedeva l’autorizzazione a fare trapianti.
Morte e vita sono inestricabilmente legate, nella natura come in quella singolare ridefinizione della natura che è il trapianto d’organi
Né si può dire che la società italiana fosse completamente pronta. Poco prima s’era costituita un’associazione, tuttora attiva, dal folle nome di “Lega nazionale contro la predazione di organi”. E poco dopo Guido Ceronetti emanava il primo dei suoi lugubri anatemi contro i trapianti, senz’altra argomentazione che le proprie fobie personali («I Mani di chi patisce l’espianto potrebbero non gradire la cosa, non brillare di piacere di vedere il cuore strappato senza cerimonie al loro “morto”» scriveva su “La Stampa”) e il solito timore astratto della china scivolosa che gli eventi potrebbero prendere («Così facendo si spiana la strada al crimine, agli espianti criminali, agli espianti senza consenso, all’orrore», dichiarava a “la Repubblica”). Scelleratezze che anticipavano di trent’anni l’ondata globale di disinformazione sui vaccini e altre conquiste mediche, e che ancora rallentano l’attuazione delle leggi italiane in materia di trapianti.
Anche a distanza di tempo, non ci si può esimere dal replicare a questi vaneggiamenti. Per quanto riguarda la retorica della “profanazione” e “predazione”, basterà leggere le parole serene e umane di Gianni Busnello, il padre del ragazzo che diede il cuore a Lazzari, per capire che la donazione è una scelta che vivifica non solo i trapiantati, ma le famiglie e la memoria dei deceduti. Quanto agli argomenti della “china scivolosa” e del “dove andremo a finire se”, occorre notare che sono, tutti quanti, segnati da un vizio logico: semplicemente, non si può imputare a una legge ciò che potrebbe accadere se quella legge venisse violata. Ed è proprio questo che fanno Ceronetti e coloro che affermano che, se si permettono i trapianti da cadavere, si apre la strada ai trapianti da vivente non consensuali. Il traffico di organi va certamente combattuto, ma per farlo è indispensabile una regolamentazione seria e razionale dei trapianti (in India, ad esempio, la lunga resistenza all’espianto da cadavere ha accompagnato e favorito il lucrativo mercato della vendita di organi da vivente).
Il traffico di organi va certamente combattuto, ma per farlo è indispensabile una regolamentazione seria e razionale dei trapianti
Ma che cos’è un cadavere, e cos’è un consenso? Anche nel definire queste cose la libertà e la solidarietà giocano un ruolo. La morte è una realtà, certo, ma è una realtà che cambia. Per secoli la cessazione del battito e del respiro furono il segno evidente della morte. Nel 1968, l’anno dopo il primo trapianto cardiaco realizzato da Christian Barnard in Sudafrica, una commissione appositamente creata dalla Harvard University propose come nuovo criterio la “morte cerebrale”: la condizione in cui il cervello ha subito danni tali che né la corteccia (sede delle funzioni cognitive) né il tronco encefalico (che governa le funzioni vegetative) funzionano più, irreversibilmente. Molti Paesi l’adottarono (l’Italia con un po' di ritardo, con la l. 578/1993, anche se la pratica dei trapianti nel frattempo andò avanti) e la stessa Chiesa cattolica non si oppose (come testimonia il discorso di Giovanni Paolo II al Congresso della società dei trapianti nel 2000). Per la prima volta, un corpo respirante, ossigenato e caldo era considerato un cadavere.
All’epoca, però, la morte cardiaca seguiva entro poche ore o giorni, per la perdita del controllo midollare della respirazione. Oggi, coi metodi di supporto cardiorespiratorio, è possibile mantenere una condizione di morte cerebrale molto più a lungo. In pratica, l’organismo come totalità integrata è morto, per sempre, ma i singoli organi possono continuare a funzionare (addirittura possono farlo anche fuori dal corpo, in opportune condizioni di supporto). È in questa situazione che, in molti Paesi, si propone alle famiglie di sospendere il supporto e consentire l’espianto. Questa sarà sempre più la “nuova normalità” della morte. In queste circostanze, al di là delle definizioni, è necessario prendere una decisione, perché non prenderla equivale a una scelta. E questa decisione aumenta il potere di ognuno sulla propria vita, individuale e relazionale, anziché fare dei nostri corpi degli oggetti di consumo, come vorrebbero far credere le organizzazioni espiantofobiche. Mediante direttive anticipate, o delega alla famiglia, o all’autorità medica, possiamo decidere se vogliamo compiere un gesto estremo di solidarietà, consentendo a un nostro simile di continuare a vivere, o se vogliamo morire un po' più soli.
In Italia molta strada s’è fatta. Nel 2018 i donatori da cadavere sono stati 22,6 per milione di abitanti, sopra la media europea del 18,4. Ma resta preoccupante la percentuale di opposizioni alla donazione (29,9% secondo l’Aido). Il decreto sul silenzio-assenso firmato lo scorso agosto dalla ministra Grillo ha integrato una legge, la 91/1999, che era tra le più avanzate in materia, ma era rimasta in parte inattuata. È necessario convertire al più presto il decreto in legge e attuare le parti ancora in sospeso, in particolare l’adeguamento dell’Anagrafe degli assistiti e soprattutto l’educazione alla donazione consapevole. La sfida non è ancora vinta.
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