Il 13 aprile del 1969 è ricordato come il giorno della più rilevante tra le tante proteste carcerarie che connotano la fine degli anni Sessanta. Non si tratta certo né della prima né dell’ultima rivolta che ha come scenario un istituto penitenziario. Precedenti si erano avuti nel Secondo dopoguerra, in particolare tra il 1945 e il 1946, a Regina Coeli, a Venezia e a San Vittore a Milano. Altre ne seguiranno durante gli anni Settanta, a volte intrecciandosi con le vicende del terrorismo. Ricordiamo ad esempio quella di Alessandria, nel 1974, conclusasi con le irruzioni dei carabinieri che provocano prima la morte di due ostaggi e, il giorno seguente, quella di altri tre ostaggi e di due dei sequestratori. Fino ad arrivare alle recenti (e ancora per molti versi non del tutto chiarite nelle loro dinamiche) rivolte scoppiate in 70 istituti penitenziari nei primi giorni della chiusura di tutta Italia per Covid.
Quella delle Nuove dell’aprile 1969 può tuttavia essere considerata la più rilevante tra le proteste e le azioni di ribellione del biennio '68-'69, ben diversa da quelle che si erano verificate in passato, sempre centrate sulle condizioni specifiche di singole prigioni o, al massimo, sulla lentezza dei processi. Che le cose stessero cambiando si poteva intuire da un primo episodio verificatosi nel carcere torinese nel luglio del 1968, quando circa 200 detenuti, chiedendo l’approvazione di nuovi codici, si erano rifiutati di rientrare nelle celle dopo l’ora d’aria, sedendosi nei cortili, attuando così una forma di protesta che riproduceva quelle tipiche delle lotte studentesche, ossia le occupazioni. Analoghe proteste si erano svolte a San Vittore e a Poggioreale, dove la rabbia per la mancanza di acqua e di docce si associava alla richiesta di riforme e di un serio diritto alla difesa.
Venendo ai giorni di aprile del 1969, la ricostruzione della vicenda – al di là della mera cronaca dei fatti eccezionali cui indulge la stampa – chiarisce che una prima protesta ha luogo l’11 aprile, giorno dello sciopero generale per l’uccisione di due persone negli scontri con la polizia di Battipaglia. I detenuti chiedono la riforma del sistema penitenziario e formulano un documento di richieste che investono una delle principali caratteristiche del funzionamento del carcere, ossia il suo totale isolamento rispetto alla società e la conseguente impossibilità di far conoscere le reali condizioni di vita e di trattamento dei detenuti. È significativo che si formuli una vera e propria piattaforma di lotta, si invitino i giornalisti a pubblicarla e si chieda ai rappresentanti delle istituzioni locali e della Commissione parlamentare preposta alla riforma dei codici e dei regolamenti di visitare il carcere e di aprire un dialogo con i rappresentanti dei detenuti, affinché possano prendere conoscenza delle loro condizioni e delle istanze da essi formulate.
I detenuti chiedono la riforma del sistema penitenziario e formulano un documento di richieste che investono una delle principali caratteristiche del funzionamento del carcere, ossia il suo totale isolamento rispetto alla società
Dopo due giorni di confronti, in particolare sull’impegno di evitare punizioni e trasferimenti, a seguito del diffondersi di una notizia, poi rivelatasi falsa, dell’uccisione di tre detenuti, la situazione sfugge di mano a quello che si era costituito come “comitato di base”. La mattina del 13 aprile la rivolta inizia dal quarto braccio, poi si espande in tutta la struttura, al quinto, poi al sesto, al terzo e al secondo, sulle scale, nelle rotonde. Il carcere sembra quasi interamente in mano ai detenuti, con assalti ai magazzini dei viveri, alla cappella, all’infermeria, ai laboratori artigianali, arrivando ai tetti. Alcuni detenuti tentano l’evasione superando le mura, ma sono respinti da una barriera di lacrimogeni, altri si impossessano di uniformi della polizia penitenziaria, ma sono smascherati prima di uscire. Sono mobilitati i plotoni antisommossa e il carcere è circondato dalle forze dell’ordine. Più di 3.000 uomini in divisa sono impegnati nello scontro con 790 detenuti che per due giorni sembrano essere, come li definisce “La Stampa”, “i padroni delle Nuove di Torino”. La calma torna il 15 aprile. Tutti i partecipanti alla protesta sono trasferiti e smistati nei penitenziari di tutta Italia.
Per una lettura non cronachistica di quanto successo a Torino il 13 e 14 aprile del 1969, ma anche di eventi analoghi dei giorni successivi a San Vittore a Milano e a Marassi a Genova, è opportuno guardare all’intreccio che si è prodotto tra istanze e motivazioni diverse.
Certamente, come spesso in passato e come motivazione prevalente in gran parte della popolazione reclusa, si esprime la protesta per le condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere. Le carceri Nuove, in realtà vecchie di cento anni, presentano un degrado evidente delle condizioni materiali in cui sono costretti a vivere i i detenuti: i bracci sono sovraffollati, con celle di pochi metri quadri dai muri umidi e scrostati, gravi sono le mancanze sanitarie e d’igiene, poche o nulle le possibilità di lavoro, nessun contatto con l’esterno è permesso. Condizioni che, come in tanti altri contesti carcerari, col tempo, si rivelano assolutamente inaccettabili.
Ma più rilevanti paiono i cambiamenti che mettono in discussione e in crisi lo stesso ordine interno delle Nuove come di tutte le altre carceri, quello assicurato dalle gerarchie costitutive la popolazione carceraria, che riflettevano culture e regole della “malavita” tradizionale. I cambiamenti principali riguardano l’età e la cultura dei detenuti. I due elementi non sono disgiunti se si pensa al periodo di cui parliamo, agli anni caratterizzati dalle tante proteste dei movimenti (studenteschi, operai, più ampiamente sociali) che, per effetto della repressione delle manifestazioni, portano in carcere molti dei loro esponenti. Come ben ricorda Marina Graziosi nel suo saggio Le rivolte dei detenuti nel biennio ’68-’69, in Millenovecentosessantanove ("Parolechiave", 18/1998), in carcere compaiono giovani politicizzati che, in maniera del tutto inedita, favoriscono una saldatura tra le proteste che percorrono la società e le istanze di cambiamento delle condizioni di detenzione in cui sono costretti tanti individui, appartenenti al proletariato e al sottoproletariato. Individui i cui comportamenti-reato sono letti progressivamente come prodotto delle contraddizioni del sistema capitalistico e dello sfruttamento delle classi subalterne, rompendo una visione del delinquente come individuo singolarmente e solo personalmente responsabile delle proprie azioni, ancora in qualche modo considerato, lombrosianamente, come segnato da malvagità intrinseca.
Le proteste, dunque, assumono il connotato di vere e proprie lotte dei detenuti. Introducendo nel contesto carcerario la parola lotta, si delinea una prospettiva diversa, che coniuga la protesta contro le disumane condizioni di vita nei penitenziari con parole d’ordine più avanzate sulla riforma delle carceri, contro la carcerazione preventiva, fino ad arrivare alla richiesta radicale di abbattimento di queste come delle altre “istituzioni totali”.
A distanza di tanto tempo la domanda che ci si può porre è se e quanto la rivolta delle Nuove abbia contribuito al cambiamento delle condizioni dei detenuti
A distanza di tanto tempo la domanda che ci si può porre è se e quanto la rivolta delle Nuove (e tutte le altre similari di quegli anni) abbia contribuito al cambiamento delle condizioni dei detenuti e alle riforme del sistema di esecuzione delle pene. Se parliamo di cambiamenti delle norme che regolano il sistema penitenziario, è indubbio che le rivolte hanno consentito di dare visibilità a quelle condizioni e – indirettamente – hanno spinto il sistema politico a pervenire, a distanza di qualche anno, nel 1975, alla riforma penitenziaria da tanto tempo auspicata. Riforma cui si è pervenuti, naturalmente, non solo per le proteste dei carcerati, ma soprattutto per il clima politico che connota quegli anni e che produce importanti riforme. E, ancora di più, per il clima culturale, cui contribuiscono intellettuali e parte della magistratura, convinti dell’esigenza di adeguamento del sistema carcerario ai principi costituzionali e in specifico all’articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Un obiettivo ancora oggi lungi dall’essere pienamente perseguito e raggiunto, per la distanza tra le riforme sulla carta e la realtà e per i ripetuti tentativi di metterle in discussione. Ma che molte parti della società e delle istituzioni considerano ancora e sempre da affermare.
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