Fin dalle ultime ore della mattinata, Piazza San Giovanni comincia a essere occupata da schiere di fedeli confluiti a Roma per partecipare non a un rito religioso, ma a una manifestazione di piazza, e precisamente a una protesta contro il progetto di riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto, allora denominato «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi» (Dico), proposto dal governo progressista di Romano Prodi. L’evento è sostenuto dalla Conferenza episcopale italiana e dal suo neo-presidente, il cardinale Bagnasco, che dichiara di «apprezzare e incoraggiare la manifestazione del 12 maggio», ma anche dalle forze politiche della destra e del centrodestra, guidate da Silvio Berlusconi, e dall’ala cattolica del centrosinistra, tra cui è doveroso ricordare un giovane e convinto Matteo Renzi.
Alla manifestazione aderisce la quasi totalità delle realtà associative e delle organizzazioni cattoliche italiane, dal Forum delle associazioni familiari a quelle altamente istituzionalizzate, tra cui Agesci, Azione cattolica, Cammino neocatecumenale, Comunione e liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Movimento per la Vita, Coldiretti, a quelle della base cattolica, tra cui Scienza & Vita, Alleanza cattolica, Unione cattolica farmacisti italiani, Federcasalinghe.
Il successo della piazza del 12 maggio 2007 determinò l’abbandono di quel progetto di legge e gravò per quasi un decennio sul dibattito pubblico, fungendo da monito e manifestando il potere della Chiesa cattolica sulla politica e sulla società italiane. Finché, nel 2016, con l’adozione della «legge Cirinnà» sulle unioni civili, il governo dello stesso Matteo Renzi introdurrà in Italia una disciplina legislativa che i movimenti gay e lesbici rivendicavano da circa quarant’anni. Tuttavia, pur riconoscendo simili (ma non identici) diritti e doveri, il compromesso renziano manterrà una distinzione netta e per certi versi discriminatoria tra coppie omosessuali unite civilmente e coppie eterosessuali unite in matrimonio, le prime riconosciute come «formazione sociale specifica» (art. 2 Cost.), le seconde come «famiglia» a tutti gli effetti (art. 29 Cost.).
Contro l’affermazione dei diritti delle coppie gay e lesbiche e in difesa della famiglia «naturale» fondata sul matrimonio e sull’imperativo riproduttivo, il Family Day del 12 maggio 2007 costituisce il secondo tempo di una mobilitazione religiosa guidata dalla gerarchia della Chiesa cattolica, già impegnata, nel 2005, nella campagna referendaria per l’abrogazione della Legge n. 40 del 19 febbraio 2004 sulla procreazione assistita. Sotto la presidenza del cardinale Ruini, la Cei era scesa nell’arena pubblica per condurre in prima persona una campagna politica, dando indicazioni di «non voto» e riuscendo infine a impedire il raggiungimento del quorum. In entrambi i casi, la Chiesa si mobilitò richiamando il popolo cattolico ai suoi doveri di «impegno politico» per ostacolare il dispiegamento di quella che era percepita, allora e ancora oggi, come una deriva democratica: l’estensione del campo dei diritti umani a soggettività illegittime e moralmente «disordinate».Il Family Day del 2007 costituisce l’ultimo tempo di una forma di azione politica cattolica post-democristianaMa quella che potrebbe sembrare un’apoteosi è in realtà il colpo di coda di un modello di azione di tipo ecclesiastico, concepito e guidato dai vertici della Chiesa cattolica e dalle rappresentanze del Vaticano. In questo senso il Family Day del 2007 costituisce l’ultimo tempo di una forma di azione politica cattolica post-democristiana. Dopo la liquidazione del partito cattolico, si era resa necessaria una ripresa in mano della leadership episcopale, incarnata dalla presidenza del cardinale Ruini, al fine di evitare la dispersione del popolo cattolico in politica. Allo stesso tempo, si trattava di mantenere insieme i pezzi di un programma dottrinario fondato sull’inviolabilità assoluta del paradigma eterosessuale, che il braccio armato del partito sembrava poter garantire e che, invece, la «diaspora» post-democristiana metteva in pericolo.
È proprio su questo punto che gli interventi pubblici del 2005 in occasione della campagna referendaria e del 2007 nella piazza del Family Day furono interpretati dalle frange più radicali del cattolicesimo italiano come dei successi paradossali, quasi fallimentari. L’opposizione all’abrogazione della legge 40 sulla procreazione assistita non aveva preso la forma di una contestazione in toto di quella legge, anzi, si era tradotta in un’accettazione condizionata. Allo stesso modo, l’opposizione al progetto di legge sui Dico non aveva lasciato emergere una contestazione integrale di qualsiasi forma di riconoscimento delle coppie omosessuali, ma, al contrario, aveva lasciato intravedere dei possibili compromessi.
Il Family Day del 2007 fu un unicum da cui non nacque alcun movimento, lasciando il popolo della contestazione cattolica, quello dei movimenti più radicali e integralisti, senza leadership e senza programma di azione. E bisognerà aspettare una nuova sequenza di mobilitazione, apertasi in occasione del dibattito parlamentare sulle unioni civili (Ddl Cirinnà del 2013), sulla legge contro l’omofobia e la transfobia (Ddl Scalfarotto del 2013) e sull’educazione di genere (Ddl Fedeli del 2014, poi confluito nel comma 16 della legge n. 107 del 2015 sulla Buona Scuola), per veder ricomparire nell’arena pubblica una contestazione cattolica.I due Family Day del 2015 e 2016, contrariamente al primo del 2007, non sono definiti da un modello di azione ecclesiastico quanto da uno di tipo movimentistaI due Family Day del 20 giugno 2015 e del 30 gennaio 2016, quelli della seconda generazione, rappresentano, infatti, due manifestazioni che si collocano in una stessa genealogia cattolica ma, contrariamente al primo del 2007, non sono definiti da un modello di azione ecclesiastico, quanto da uno di tipo movimentista. Esso è cioè concepito e guidato dall’imprenditoria movimentista cattolica emersa in seno all’universo cattolico contestatario della Marcia per la Vita tra il 2012 e il 2013, riprendendo il formato e il discorso di mobilitazione de «La Manif pour tous» francese, centrato intorno alla lotta contro la cosiddetta «teoria del gender» o «ideologia gender».
Se la piazza del 2007 era pensata e organizzata dall’alto, quelle del 2015 e del 2016 furono invece il risultato di un lavoro di militanza del laicato cattolico impegnato nelle organizzazioni, nei movimenti nelle associazioni, ma anche nelle parrocchie, per riattivare il «popolo» cattolico di fronte alla catastrofe «antropologica» del «gender» e a fronte dell’indisponibilità dei vertici cattolici a condurre il nuovo movimento della contestazione cattolica.
I tre Family Day non costituiscono una trilogia cattolica. Il passaggio tra il primo e gli altri due segna, al contrario, da un lato, il punto finale di una lunga stagione di interventismo episcopale e vaticano negli affari pubblici, e, dall’altro, l’avvio di una nuova sequenza di movimentismo cattolico che ha deciso di muoversi in autonomia rispetto al Vaticano per svolgere un’azione di «contaminazione» religiosa del campo politico, così come teorizzato dal leader di questo nuovo movimento, Massimo Gandolfini, e così come efficacemente sperimentato in occasione del Congresso mondiale delle famiglie di Verona del 2019.
Il Family Day non è tanto il nome di una nuova associazione cattolica che nega la sua dimensione confessionale, quanto la ragione sociale di una nuova forma di movimentismo religioso la cui specificità è di proporre un’azione affrancata ma non scomunicata dalla guida ecclesiastica, e soprattutto un discorso contestatario per cui l’affermazione, la difesa e la promozione della famiglia «naturale» è anzitutto negazione dell’altro.
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