Un dicembre così pieno di soddisfazione professionale Gualtiero Marchesi l’aveva forse inseguito per anni. Tutti i giornali parlavano di lui, chef del primo ristorante in Italia a ottenere tre stelle dalla guida Michelin. Una data da «segnare col sassolino bianco», come un paio di giorni dopo scrisse Gianni Mura su «la Repubblica». Dopo più di vent’anni d’attesa (le prime «stelle» erano state assegnate nel 1959) e meno di un decennio di ascesa irresistibile di Marchesi ai livelli più alti dell’alta cucina, un ristorante del nostro Paese entrava nel ristrettissimo club.
Erano altri tempi, in cui la presentazione della guida avveniva in uno dei più eleganti ristoranti di Milano, e le vite professionali degli chef più noti non erano quotidianamente sotto gli occhi di appassionati gourmand, foodie itineranti e narratori di ricette d’autore. Prova ne è il fatto che sul «Corriere della Sera» Massimo Alberini celebrava Marchesi citando il «giusto orgoglio per il maestro che raggiunge un traguardo cui puntava da anni», non tralasciando però di punzecchiare lo chef che si faceva anche imprenditore e consulente per una linea di surgelati. Un traguardo che poi lasciò anche spazio a più di qualche polemica, fino al punto di chiedere di non essere più valutato dalla guida e da esserne, colpevolmente, ignorato.
A dirla tutta, tre stelle Michelin le aveva ottenute qualche anno prima anche un altro italiano. Ma Heinz Winkler – natali a Bressanone, primi passi in cucina a Bolzano – ha svolto tutta la sua carriera tra la Svizzera e la Germania, e quindi non è stato in grado di esercitare in Italia quell’influenza che fu invece di Marchesi su almeno due generazioni di chef. Lo fece da italiano in Italia, e ancor di più da milanese a Milano, nonostante una scuola alberghiera in Svizzera e un apprendistato, già adulto e affermato ristoratore, in uno dei luoghi simbolo della nouvelle cuisine francese, il ristorante dei fratelli Troisgros.
La cucina di Marchesi, così come quella di altri precursori, è inconfondibile e, al tempo stesso, radicale per i tempi
Dalle campagne della Loira, Marchesi ritorna a Milano pieno di idee contemporanee e in alcuni casi preveggenti, necessarie a far fare alla sua cucina, una cucina dalle solidissime basi classiche e ben piantata anche nella tradizione italiana, il salto che le serve. Fu, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, un balzo enorme, che lo collocò in un gruppo di pionieri in grado di trasformare l’alta ristorazione italiana e a farle compiere il passaggio da cucina del dì di festa a una proposta gastronomica fortemente individuale e creativa. La cucina di Marchesi, così come quella di altri precursori, è inconfondibile e, al tempo stesso, radicale per i tempi. Una stella Michelin appena aperto, nel 1977; una seconda a stretto giro, nel 1978; per la terza, la vetta, qualche anno di rodaggio e poi, a fine 1985, la consacrazione.
La visibilità di Marchesi come il cuoco più rappresentativo a livello internazionale della nostra gastronomia non offusca quanto accade, in quegli anni di profondo cambiamento, nel campo della alta cucina italiana. Gli anni Ottanta sono un decennio che si apre con le folate della nouvelle cuisine che arrivano dalla Francia (e Marchesi sarà spesso percepito, a torto o a ragione, come un portavoce di quel movimento che ri-classifica e ri-codifica l’alta cucina) e si chiude con le avvisaglie di una progressiva presa di coscienza delle potenzialità di una cucina italiana meno dipendente, in modo quasi reverenziale, dall’esempio francese.
In questo contesto, Marchesi emerge come una figura nuova di imprenditore dell’alta cucina che giunge a maturità ai giorni nostri, in cui la figura onnipresente dello chef (come celebrità, imprenditore, brand personale e ambasciatore del rapporto tra cibo e identità) sembra indicare un’estensione della sua influenza, che travalica i confini della cucina e del ristorante e che lo mette al centro di un insieme di discorsi. È in questo senso che, parlare di cucina oggi, e soprattutto di alta cucina, significa anche parlare di identità, di memoria collettiva attraverso il gusto, delle opportunità per l’imprenditorialità italiana, ma anche di made in Italy o di sostenibilità delle scelte alimentari. Il campo della cucina, in altre parole, diventa più intellettuale, sia come effetto del posizionamento di molti chef in merito a queste questioni, sia per il suo collegamento con temi di portata ben più ampia di una temperatura o una tecnica di cottura.
Benché Marchesi abbia, in vita, esplorato poco le implicazioni maggiormente politiche (in senso ampio) di questa trasformazione, è vero che è stato anche uno chef molto più vicino al nuovo ruolo di quanto non fosse vicino ai suoi immediati predecessori. Da questo punto di vista, è stato uno chef totale in una misura che era preclusa a quelli della generazione precedente, sfruttando le opportunità di un maggiore riconoscimento dello chef come creatore (a metà tra artigiano e artista), oltre che le sue capacità di rivestire, pur restando riconoscibile, ruoli multipli: grande organizzatore e maestro di brigata, da cui escono moltissimi chef della generazione successiva; autore di libri di cucina per un grande pubblico, ma anche di una collana in videocassette; da ultimo, attento guardiano dell’alta professionalità degli chef attraverso una delle più famose accademie di cucina in Italia.
Marchesi è stato uno chef totale in una misura che era preclusa a quelli della generazione precedente, sfruttando le opportunità di un maggiore riconoscimento dello chef come creatore (a metà tra artigiano e artista)
Quella che percepiamo dunque come l’onnipresenza degli chef di alto rango nei nostri media e nel discorso pubblico (tanto più visibili quanto più il campo della cucina ha costruito la propria legittimazione) è il risultato di una profonda trasformazione, che rende sia gli chef sia le loro creazioni immediatamente riconoscibili: nel caso di Marchesi, il raviolo aperto, l’utilizzo della pasta fredda nel Paese della pasta cibo di elezione, la seppia con il suo nero, il dripping di pesce che strizza l’occhio a Pollock, in un connubio tra cucina e riferimenti ora artistici, ora musicali. Da ultimo, quel piatto iconico che è il riso oro e zafferano, di cui si celebrano i quarant’anni e che ritroviamo oggi in molte forme, dall’omaggio fedele alla rivisitazione radicale.
Ogni volta che vediamo accostati il riso e una sottilissima lamina d’oro, del resto, è facile capire che ci troviamo nel terreno in cui l’alta cucina cita e omaggia se stessa, mentre al tempo stesso tenta di recuperare una memoria del gusto e dell’estetica che possa andare oltre la sua mediatizzazione e la straordinaria popolarità che hanno oggi i celebrity chef. Esiste, tuttavia, una dinamica, forse ancora più profonda, nel quale la cucina d’autore è una delle tante dimensioni in cui si sviluppa il legame profondissimo tra cibo e identità italiana. Da un lato, l’alta cucina assolve una missione dove al centro ci sono la creazione e lo stupore (e Marchesi fu certamente un precursore in questo senso, così come lo sono oggi molti dei suoi allievi e tanti altri che suoi allievi non furono); dall’altro, in questa curiosità collettiva per il mondo degli chef c’è anche un desiderio diffuso di imparare di più sul cibo, ovunque ve ne sia l’occasione. Che si tratti di un ingrediente dimenticato (spesso, dimenticato perché ricordava l’Italia anteriore al boom economico), di una ricetta di famiglia, di un presidio slow food o di un piatto immediatamente identificabile con uno chef o un ristorante, tutto va a comporre il quadro generale di un rapporto tra gli italiani e il cibo che non è forse mai stato così forte e consapevole, e in una parola identitario.
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