Il decennio iniziato con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) e la conseguente istituzionalizzazione di un maturo sistema di relazioni industriali fu segnato, alla sua metà, dallo shock petrolifero che mise per la prima volta in crisi lo straordinario processo di modernizzazione del sistema produttivo del nostro Paese, noto come “miracolo italiano”.

In particolare, a fronte di una crescente e apparentemente inesorabile inflazione e al relativo aumento del costo della vita, vigeva un meccanismo di adeguamento automatico del potere d’acquisto dei salari (la cosiddetta “scala mobile”) che sostanzialmente modificava in automatico i salari in funzione degli aumenti dei prezzi di un paniere di merci, secondo quanto valutato con un apposito indice dei prezzi al consumo. Questo meccanismo si trovò in quegli anni al centro del dibattito scientifico fra economisti, divisi tra chi riteneva di doverlo mantenere, e chi riteneva di doverlo in qualche modo raffreddare.

Il 23 gennaio 1983, con la mediazione del governo, le tre grandi confederazioni sindacali e le organizzazioni imprenditoriali avevano sottoscritto per questo motivo un primo accordo volto a rallentare gli effetti di indicizzazione dei salari. Questo accordo, noto come Protocollo Scotti, dal nome dell’allora ministro del Lavoro, costituiva probabilmente il primo, timido passo in quel processo di “concertazione sociale” che, con alterne e anche drammatiche vicende, avrebbe segnato i successivi sviluppi del nostro sistema di relazioni industriali.

A poco più di un anno di distanza, il nuovo governo per la prima volta a guida socialista, presieduto da Bettino Craxi, propose un ulteriore accordo in materia, per un nuovo e più complesso impegno tripartito al fine di predeterminare la scala mobile nel processo di disinflazione concertato su base trilaterale. Nonostante la forte pressione governativa, l’accordo non fu sottoscritto per l’opposizione della Cgil, o quantomeno della sua componente maggioritaria tradizionalmente legata al Partito comunista. A fronte di questo stallo negoziale, il 14 febbraio 1984 il governo, rompendo una consolidata prassi di non-intervento nelle dinamiche interne del movimento sindacale, concluse un accordo separato con Cisl e Uil, recependone il contenuto in un provvedimento legislativo che passerà alle cronache come Decreto di San Valentino: ai lavoratori viene imposta la rinuncia a quattro scatti di adeguamento salariale rispetto a quanto dovuto per l’inflazione passata, a fronte di una corposa contropartita in termini fiscali e di innovazione del mercato del lavoro.

Con il provvedimento legislativo noto come Decreto di San Valentino ai lavoratori viene imposta la rinuncia a quattro scatti di adeguamento salariale, a fronte di una corposa contropartita in termini fiscali e di innovazione del mercato del lavoro

Più che per ragioni tecniche sull’efficacia delle misure ipotizzate ai fini della disinflazione a tutela del potere d’acquisto dei salari, l’opposizione della principale confederazione sindacale è essenzialmente dovuta a ragioni di politica generale. In particolare, il Partito comunista si oppone alle linee di politica economica e industriale del governo Craxi, caratterizzato fin dall’inizio da un inedito piglio decisionista, che rivendica il primato della politica sulla difficoltà e le lentezze tipiche della mediazione sociale. La stessa scelta del governo ha in sé precise motivazione di ordine politico: evidente e del resto dichiarata è la volontà di Craxi di inserirsi nelle dinamiche sindacali, minando alle fondamenta l’unità sancita dodici anni prima con la sottoscrizione del Patto federativo Cgil-Cisl-Uil.

Per capire l'importanza dell'avvenimento, vale la pena di ricordare come nacque quel patto. Nel 1972 le tre grandi Confederazioni avevano inteso formalizzare, dopo la clamorosa frattura dell’immediato dopoguerra, una ritrovata unità d’azione attraverso la costruzione di una sovrastruttura federativa unitaria. Questa doveva fungere da camera di compensazione delle tensioni fra le diverse componenti del movimento sindacale e favorire un'unità d’azione la cui opportunità era già emersa nel corso degli anni precedenti, in particolare durante le lotte dell’autunno caldo del 1969.

Nonostante il patto stesso contenesse al proprio interno l’impegno delle diverse organizzazioni a un sostanziale affrancamento dalla stagione del sindacato come “cinghia di trasmissione” fra partiti politici e mondo del lavoro, l’accordo fu raggiunto grazie a quello che fu un vero e proprio scambio politico: la rinuncia da parte della Cgil, organizzazione allora di gran lunga maggioritaria, a far valere il peso della propria rappresentatività sostanziale attraverso il meccanismo di necessaria unanimità nelle scelte di politica sindacale. Interessante notare come il punto più alto e significativo di questo storico riavvicinamento fra le diverse componenti del movimento sindacale organizzato trovasse il suo punto di equilibrio negoziale nella esplicita negazione del modello costituzionale di pluralismo sindacale, basato invece sulla rigorosa misurazione della capacità rappresentativa di ciascuna organizzazione (art. 39 Cost., par. 1 e 4).

Nel 1984 la precarietà di questo delicato equilibrio non resse agli effetti della sottoscrizione di un accordo separato da parte di Cisl e Uil, ulteriormente enfatizzato dal loro sostegno all’intervento legislativo del governo. Una serie di scioperi organizzati da Consigli di fabbrica egemonizzati dalla Cgil in alcune fabbriche del Centro Nord portò alla formale disdetta, da parte della Uil, del Patto federativo e al (temporaneo) tramonto del processo di convergenza delle principali componenti storiche del movimento sindacale italiano. Il terremoto è particolarmente pesante per la Cgil, la cui adesione alla proposta di un referendum abrogativo avanzata dal Partito comunista mette in grave imbarazzo la propria componente interna vicina ai socialisti, decisamente minoritaria ma politicamente “pesante”, che finisce col dissociarsi dalle scelte confederali, soprattutto in sede di campagna referendaria.

La prova del voto popolare giunse in una fase politica concitata, segnata dall'improvvisa scomparsa del segretario del Pci, Berlinguer, e dall'omicidio ad opera delle Br dell'economista Ezio Tarantelli, principale ispiratore del tentativo di contenimento dell’inflazione

In una confusa fase politica generale, segnata prima dall’improvvisa e drammatica scomparsa di Enrico Berlinguer, carismatico segretario del Partito comunista e principale sostenitore del "sì" al referendum abrogativo, e, pochi mesi dopo, dall’assassinio, ad opera delle Brigate Rosse, del professor Ezio Tarantelli, autorevole economista romano e principale ispiratore del tentativo di contenimento dell’inflazione, il 9 e 10 giugno 1985 si giunse alla prova del voto popolare. Il quorum venne ampiamente superato, ma, contrariamente alle aspettative, prevalse il "no".

La mancata abrogazione del decreto di San Valentino segna la più grave sconfitta politica subita dal Partito comunista nel suo complesso rapporto con la specificità, tutta italiana, del nostro sistema di relazioni industriali e con un sostanziale isolamento della principale organizzazione confederale.

L’aggravarsi della situazione economica complessiva e la necessità di affrontare una vera e propria emergenza ricondurranno tutte le parti al tavolo tripartito e allo sviluppo di uno specifico pacchetto di aggiustamenti normativi noti come “legislazione dell’emergenza”. Nel 1990, cinque anni dopo il referendum, Confindustria darà poi formale disdetta dell’originario accordo interconfederale istitutivo della scala mobile: inizialmente ritirata, su pressione del governo Andreotti, viene confermata l’anno seguente.

Uno strappo clamoroso che sarà però foriero di una dinamica positiva: da un lato, i buoni risultati ottenuti nella disinflazione, dall’altro, un soprassalto di responsabilità delle parti sociali in un caotico contesto politico inquinato dall’inchiesta giudiziaria Mani pulite porteranno al riavvio, su basi più solide, di un virtuoso percorso concertativo culminato nello storico accordo tripartito del 23 luglio 1993 (Protocollo Ciampi, dal nome dell’allora presidente del Consiglio) e alla vittoria nella lotta all’inflazione.

Sono passati neanche tre decenni e tutto è cambiato: lo straordinario sviluppo della globalizzazione dei commerci e dei mercati – anche di quello del lavoro – amplificata dalle nuove tecnologie ha determinato la destrutturazione degli assetti economici, sociali e politici che caratterizzavano il mondo industrialmente avanzato, in particolare il nostro sistema-Paese.

Paradossalmente, in un contesto politico-istituzionale che ha visto l’indebolimento del sistema parlamentare e la sostanziale scomparsa dei vecchi partiti politici, le grandi Confederazioni storiche, seppur parzialmente ridimensionate nel proprio ruolo istituzionale, sono le uniche sopravvissute di una complessa vicenda che ha accompagnato lo sviluppo democratico del nostro Paese. Sono le depositarie di una memoria storica che, proprio davanti alle incognite di un futuro molto incerto, merita di non essere dimenticata.