Novembre 1985. Viene depositata l’ordinanza istruttoria contro «Abbate Giovanni+706», redatta dai giudici del pool antimafia del tribunale di Palermo Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone e Leonardo Guarnotta: 40 volumi, più di 400 mila pagine. Il processo davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Alfonso Giordano, dopo il vile rifiuto di molti dei suoi colleghi, si aprirà il 10 febbraio 1986 e segnerà un prima e un dopo nella lotta alla mafia della storia repubblicana.

Tutti, compresi i mafiosi, pensano che quello che si celebrerà in base alle indagini del pool non sarà un processo qualsiasi; di quelli che, inevitabilmente, finiscono con l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove; o, di quelli in cui, se condannati in primo grado, si verrà assolti in appello o, al limite, sicuramente di fronte alla Cassazione, com’è sempre successo. Questa volta il pool antimafia, voluto dal Consigliere istruttore Giorgio Chinnici, ha delle armi che fino a quel momento non erano esistite. Chinnici le ha ritenute indispensabili; lui che ha preso il posto di Cesare Terranova, ucciso sulla sua auto qualche anno prima. Terranova lo ripeteva sempre: la mafia non riflette una cultura o un costume, è invece un’organizzazione verticistica specializzata nell’industria della violenza e nell’accumulazione illecita di capitali proveniente dai ricchi mercati illegali, specie dal contrabbando della droga. Con Chinnici si è istituzionalizzato il pool, cioè un gruppo di magistrati che si occupava dei reati commessi dalla associazione criminale che domina Palermo e provincia. Un coordinamento d’indagini già sperimentato contro il terrorismo e «copiato e importato» per fronteggiare i gruppi mafiosi. Ma anche Chinnici è stato ucciso e al suo posto è arrivato da Firenze Antonino Caponetto, che porterà a perfezione il modello del poolIl processo davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Alfonso Giordano, dopo il vile rifiuto di molti dei suoi colleghi, si aprirà il 10 febbraio 1986 e segnerà un prima e un dopo nella lotta alla mafia della storia repubblicana

Troppi i morti a Palermo, più di mille tra il 1978 e il 1985, più del doppio di tutte le vittime del terrorismo, rosso e nero. Morti mafiosi, gente comune, giornalisti, imprenditori, medici, professionisti, investigatori, vertici della polizia e dei carabinieri, giudici, dirigenti dei partiti, il cuore della Democrazia Cristiana, con il presidente della Regione Piersanti Mattarella, ma anche quello dell’opposizione con Pio La Torre segretario regionale dei comunisti, oltre al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel frattempo, il Parlamento approva la legge che istituisce il reato di associazione mafiosa e, di eguale importanza, emana la legge Rognoni-La Torre che permette ai giudici di poter, per la prima volta, superare il segreto bancario e seguire i movimenti finanziari degli indagati. 

È la tecnica di indagine che gli agenti della Dea, l’agenzia conto la droga statunitense, chiamavano Follow the Money. La guerra che porterà a più di mille omicidi è, d'altra parte, una lotta per controllare il mercato della droga verso gli Stati Uniti: a scatenarla è stata la fazione dei corleonesi, trasversale a tutte le famiglie mafiose, con a capo Michele Greco e Salvatore Riina. La posta in gioco è il monopolio della produzione della droga in Sicilia, dopo il suo arrivo «base» dall’estremo oriente, con il successivo sbocco verso il Nord Europa, ma soprattutto gli Stati Uniti. Da oltreoceano però arriva un altro grande strumento di contrasto alla mafia, cioè la possibilità di avvalersi dell’uso dei pentiti; che in Italia è stata sperimentata con grande successo nel contrasto al terrorismo. La collaborazione con il pool del trafficante Salvatore Contorno e del grande boss internazionale Tommaso Buscetta, si rivelerà la carta probatoria vincente. È quest’ultimo a testimoniare che non solo la mafia esiste, cosa di cui ancora in tanti dubitano all'epoca, ma della quale lui stesso fa parte, e che al vertice dell’organizzazione c'è un gruppo ristretto di capi, denominato «la cupola». Questa messe di rivelazioni incredibili è subito etichettata dai giornali, sulla scia di quanto avvenuto con i processi di terrorismo: «il teorema Buscetta».

Quindi, nel febbraio dell'86 il pool antimafia dispone, per la prima volta nella storia repubblicana, di leggi, di strumenti investigativi, ma soprattutto godeva dell’appoggio del governo e dello Stato nella lotta alla mafia. La stessa Dc, guidata in Sicilia dal Sergio Mattarella fratello di Piersanti, mette in minoranza l’ala del partito più legata alla mafia, cioè quella di Vito Ciancimino, grazie anche alla presa di distanza da quel personaggio, così contiguo alla mafia, di Salvo Lima, anche lui potente democristiano della corrente andreottiana, come Ciancimino. L’arresto di «don» Vito nel 1984 per associazione mafiosa, insieme a quello dei cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori delle tasse in Sicilia e cerniera con il mondo della grande economia, è un messaggio chiarissimo di cambiamento rispetto al passato. E non solo il pool gode dell’appoggio del governo, ma, e questa è un’altra grande novità, nella società civile si sta formando un vasto e trasversale schieramento antimafia, che mette insieme il mondo politico, cattolico e comunista, con le spinte di pulizia morale espresse dalla società civile: «la primavera di Palermo».

Il nucleo essenziale di questo cambiamento è senza dubbio il maxiprocesso.

Il «Maxi», come è chiamato, sarà un evento mediatico giudiziario senza precedenti. Durerà 639 giorni; si terranno 349 udienze, duranti le quali verranno sentiti 919 testimoni e 28 pentiti. Più di 300 emittenti televisive di tutto il mondo ne trasmetteranno le immagini. Presenti nella grande aula verde ben 212 avvocati difensori, dei quali 32 di parte civile. Il tutto dentro un’avveniristica aula bunker costata 30 miliardi di lire e costruita in sei mesi a fianco del vecchio carcere borbonico dell’Ucciardone di Palermo, sorvegliata da centinaia di militari, protetta dalle autoblindo e dagli elicotteri, con più di altri duemila componenti delle forze dell’ordine preposti al controllo della città. Un intero complesso residenziale viene sequestrato dal prefetto per ospitare i pentiti e le loro scorte. Il 16 dicembre 1987 il presidente della Corte d’Assise del maxiprocesso, il giudice Giordano con a latere Pietro Grasso, leggerà la sentenza: Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e altri 16 tra bossi e killer, molti dei quali in contumacia ma tutti componenti della cupola, saranno condannati all’ergastolo. Altri 327 imputati subiranno pene severe. La mafia esiste, dunque, non rappresentando una cultura o una mentalità, bensì una micidiale macchina da guerra: gerarchica, violenta nelle ritorsioni, implacabile verso chi disubbidisce agli ordini o è colpevole di allearsi con i nemici. Il maxiprocesso si rivelerà anche la grande causa persa per gli avvocati penalisti palermitani, molti dei quali sono sicuri che alla fine tutto si arenerà nei fondali sabbiosi dei termini della carcerazione preventiva

Il maxiprocesso si rivelerà anche la grande causa persa per gli avvocati penalisti palermitani, molti dei quali sono sicuri che alla fine tutto si arenerà nei fondali sabbiosi dei termini della carcerazione preventiva. Non stupisce quindi che l’allungamento dei tempi dibattimentali si riveli una precisa strategia della difesa. Su questo terreno si registrano gli scontri più aspri con il giudice Giordano. Neanche la sentenza di secondo grado, emanata il 10 dicembre 1990, pur limando alcuni anni di reclusione, riuscirà a smontare l’impianto del maxiprocesso. Ma la data più rilevante sarà il 4 marzo 1991, quando la prima sezione penale della corte di cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, rimetterà in libertà per decorrenza dei tempi di custodia cautelare 42 imputati, tra cui Michele Greco. Uno smacco. Il governo Andreotti, su proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli e del ministro degli Interni Vincenzo Scotti, vara un decreto legge urgentissimo cha annulla le scarcerazioni in base ad una «interpretazione autentica» della tempistica cautelare. 

Nel frattempo, il pool non esiste più, è stato smantellato anche per lotte interne alla magistratura stessa che, alla fine, hanno colpevolmente isolato anche Falcone. Quest’ultimo sarà chiamato, nel febbraio del 1991, alla direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Qui inizierà a lavorare alla creazione, sul modello americano e in base alla feconda esperienza del pool, ad una direzione investigativa nazionale per la lotta alla mafia. Intanto, in base ad un nuovo criterio studiato dallo stesso Falcone e basato sulla rotazione delle sezioni a cui affidare i casi di mafia, si riuscirà ad esautorare la sezione presieduta dal giudice Carnevale dal giudizio di legittimità sul maxiprocesso, che verrà così affidato al presidente Amato Valente e concluso con una conferma dell’impianto processuale, delle condanne, della veridicità dei pentiti e del teorema Buscetta. 

La sentenza della Cassazione verrà pubblicata il 30 gennaio 1992. La mafia non tarderà ad eseguire la sua risposta: la sentenza di morte contro Falcone, il 23 maggio successivo.