Il 1° febbraio 1975 il «Corriere della Sera» pubblica un intervento di Pier Paolo Pasolini intitolato Il vuoto del potere in Italia. L’articolo sarà poi raccolto nel volume Scritti corsari pubblicato lo stesso anno, con un titolo diverso, che richiama l’immagine poetica e politica che ne sta al centro, vale a dire L’articolo delle lucciole. Pochi mesi dopo, nella notte tra il 1° e il 2 novembre, Pasolini sarà selvaggiamente assassinato. Nel 1975 ho dieci anni. Nelle estati della mia infanzia (non saprei essere più preciso), nel buio dei piccoli orti dietro al condominio in cui abito, al confine tra città e campagna, mi capita spesso di guardare incantato o inseguire grandi sciami di lucciole. Non conosco ancora nulla di Pasolini.
Quando incontro e comincio a frequentare i suoi lavori, non molti anni dopo, ne sono profondamente colpito ed emozionato. Ancora oggi non mi pare possibile pensare il presente senza confrontarsi con la disperata analisi che Pasolini condensa in quell’articolo. Una disperazione pacata, un «adattamento» – come scrive nella sua Abiura dalla Trilogia della vita – non riconciliato a nuove condizioni di civiltà, espressi in un linguaggio polemico ma composto, chiaro, privo di ammiccamenti, lucidamente sottratto a ogni gergo disciplinare o intellettuale (conviene andarsi a cercare i tanti brani di interviste o brevi passaggi televisivi, reperibili in Rete, per averne percezione immediata). Non si tratta di dare ragione o torto a quel pensiero e finalmente, classificandolo, sterilizzarlo. Piuttosto, mi preme pensare con quel pensiero e rilanciarne le potenzialità di critica radicale – l’andare alla radice – di cui la nostra realtà contemporanea ha grande necessità.
Con l’intensità di chi ne fa esperienza nel proprio corpo e nella propria vita, ancor prima che nella propria visione culturale e politica – ma la peculiarità del suo pensiero sta appunto in una poetica in cui queste dimensioni sono pienamente fuse in un unico reticolato nervoso, proprio ciò che Ferrarotti maggiormente gli rimproverava –, Pasolini utilizza un’immagine, la scomparsa delle lucciole, per rappresentare un drammatico mutamento storico e antropologico che egli considera un «genocidio» (riprendendo il termine da Marx: si veda l’intervento a ciò dedicato, sempre negli Scritti corsari).
«Nei primi anni Sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato…)».
Quel fenomeno segna uno spartiacque, un confine tra due fasi della vita del nostro Paese e del regime politico che, apparentemente senza discontinuità, lo caratterizza. Prima della «scomparsa delle lucciole», la «continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta […]. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle élite che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano» e il conformismo democristiano riaffermava astrattamente gli stessi valori celebrati dal fascismo: «la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità». Nella fase di transizione (durante la «scomparsa delle lucciole») «il grande Paese che si stava formando dentro il Paese», vale a dire il movimento operaio organizzato dal Pci, riafferma la visione antifascista ancorata alla fase precedente, poiché nessuno poteva scorgere, nelle forme del «benessere», il «genocidio» che andava perpetrando lo «sviluppo».
La scomparsa delle lucciole coincide con un profondo mutamento. I vecchi valori di colpo sono scalzati e il nuovo capitalismo unifica davvero per la prima volta il nostro Paese, modificandone in profondità forme e concezioni di vita.
«Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza».
Il vuoto del potere, cui il titolo originale dell’articolo si riferisce, è costituito appunto dalla totale inconsapevolezza del regime politico dominante di un tale mutamento e quindi dalla completa incomprensione del Paese e della società che pure governa.
Una inconsapevolezza in realtà ampiamente condivisa, secondo Pasolini. Intervistato poche ore prima di essere ucciso, denuncia drammaticamente la generale superficialità con cui gli episodi di violenza, eclatante o quotidiana che siano, sono deprecati senza che ne venga compresa la vera natura, sintomi di quella profonda involuzione civile su cui da tempo andava richiamando l’attenzione: «Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. […] Sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno».
Al tempo della «grande accelerazione» dell’Antropocene, l’immagine delle lucciole acquista forse ancor più forza evocativa (in effetti, sarà il movimento ecologista, racconta Peter Kammerer, a recepire in Germania l’opera di Pasolini). Ma è sul piano del rapporto tra politica e immaginario che occorre riprenderne il senso. Pasolini non improvvisa l’immagine delle lucciole. Giovanissimo, all’inizio degli anni Quaranta, in una lettera a un amico racconta di una notte in cui i bagliori di «una quantità immensa di lucciole, che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli», incarnano la gioia dell’amicizia, l’innocenza del desiderio, bagliori esprimibili anche attraverso l’arte e la poesia e che, per quanto debolmente ed eccezionalmente, sopravvivono anche in tempi bui come quelli del fascismo (durante il quale la lettera viene scritta). Il filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman ha ripreso in questi anni il filo di quel ragionamento (Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze). Le lucciole, scrive Didi-Huberman, metaforizzano «l’umanità ridotta alla sua più semplice potenza di farci segno», baluginio percepibile nel buio e che, invece, scompare nel bagliore accecante «dei riflettori delle torri di guardia, degli spettacoli politici, degli stadi di calcio, dei palcoscenici televisivi». I fili di Pasolini vengono riannodati a quelli attraverso i quali Walter Benjamin, testimone anch’egli di una drammatica involuzione di civiltà, invitava a «organizzare il pessimismo»: le lucciole di Pasolini, scrive Didi-Huberman, mostrano che «nel nostro modo di immaginare si trova fondamentalmente una condizione del nostro modo di fare politica». In essa, presente e passato si intrecciano e dischiudono un diverso futuro.
«Se l’immaginazione – questo lavoro che produce immagini per il pensiero – ci illumina attraverso il modo in cui il Già-stato e l’Adesso si incontrano per far nascere costellazioni ricche di Futuro – prosegue l’intellettuale francese – allora capiremo quanto sia decisivo questo incontro dei tempi, questa conflagrazione di un presente attivo con il suo passato reminescente».
La sopravvivenza delle lucciole, con e contro Pasolini al tempo stesso, dipende dunque da noi, dalla nostra capacità di cercarne il baluginio e per rappresentarlo, malgrado tutto.
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