L’opera di Nanni Moretti sul Cile fa discutere e su queste pagine l'hanno già fatto Mario Ricciardi e Nicola Rossi. Premesso che la storia non dà torto né ragione, non assolve né condanna, ma è un oceano sconfinato in continua agitazione, provo a dire la mia, ma solo dopo avere avvertito, per onestà intellettuale, che non è difficile trovare storici che pensano l’opposto di me: la memoria sul Cile di Allende è divisa, come diviso fu il Cile di allora. Ma non è divisa in due: pro o contro. E per fortuna! Per quel che mi riguarda, il disprezzo per la dittatura di Pinochet non mi impedisce di considerare negativa l’esperienza di Allende.
Una breve considerazione sul senso del film di Moretti: gli italiani di allora erano migliori di quelli di oggi perché accolsero tanti profughi in fuga dalla persecuzione. Non saprei dire se è vero o meno: non ho un ricordo così fulgido dell’Italia degli anni Settanta, ricordo un clima cupo e violento. Inoltre, da storico, temo i trabocchetti del tempo: il passato è uno specchio deformante, specie quando invecchiamo. Lascerei stare. Tanto più in questo caso: paragonare l’accoglienza ai cileni con il fenomeno migratorio in corso è mettere sul piatto della bilancia le classiche pere e le classiche mele. Cosa c’entra? Lo dico da fautore di una società aperta e cosmopolita, per nulla ostile a immigrati e immigrazione. I cileni furono perlopiù accolti da reti solidali basate su affinità ideologiche; lo so bene, perché la mia famiglia ne fece parte. E il Cile era ed è un Paese a noi prossimo per cultura, valori, stile di vita. Avremmo accolto allo stesso modo un pakistano, un gabonese, un marocchino in cerca di maggior prosperità? Nemmeno per sogno, non raccontiamoci favole. Semmai la differenza tra allora e oggi ci insegna un’altra cosa: che l’italiano, quello eterno, l’italiano di sempre, ha il cuore aperto per il suo gruppo, la sua famiglia, il suo partito o la sua parrocchia; non ce l’ha altrettanto per le persone in quanto tali. Ciò aprirebbe una lunga riflessione sul nostro retaggio corporativo, anche in campo economico, ma sarà per un’altra volta.
E veniamo al Cile. All’analisi di Nicola Rossi sul populismo economico del governo di Allende e sui suoi effetti deleteri, non aggiungerei nulla: è così, è noto agli studiosi e c’è poco da girarci intorno. In appena tre anni ridusse il Paese al collasso. So che si invoca il boicottaggio, che si chiama in causa Nixon: quel che ci vuole, ma la sostanza non cambia; fu una politica economica sconsiderata e demagogica. Più che la paura del comunismo furono i mercati vuoti a spingere tanti cileni a plaudire al golpe. Piaccia o no, la ragione fu la stessa che ha prodotto gli stessi effetti altrove, in contesti molto diversi ma tra membri della stessa famiglia ideologica: peronismo, castrismo, sandinismo, chavismo, tutti sono prima o poi finiti allo stesso modo; volevano “distribuire la ricchezza”, hanno spalmato la miseria e reciso le fonti della prosperità. Per non parlare delle istituzioni democratiche. Come si spiega? Per disprezzo morale verso il mercato; per la pretesa di subordinare alla morale la politica e l’economia; per la furia redentiva con cui ambivano a creare il regno di Dio in terra credendo nella forza onnipotente della fede: la loro fede, chiamata revolución. Nessun leader di quei movimenti, Allende incluso, avrebbe sottoscritto il noto aforisma di Olof Palme: non facciamo guerra ai ricchi, ma alla povertà: roba da luterani. Nell’America Latina e cattolica, la povertà è virtù, la ricchezza peccato. E povertà tutti hanno seminato.
Pensare, come molti pensano, che il governo di Unidad popular fosse un placido intento di distribuire con più equità i doni di Dio è ingenuo; fa torto alla storia e alla passione di chi ci credette. Allende e il suo governo non erano socialdemocratici; non conoscevano Bad Godesberg. Anzi: sentivano il vento della storia a favore; volevano redimere, non riformare. Il partito socialista cileno governava un Paese democratico con un programma che inneggiava alla lotta armata. Non voleva costruire il socialismo democratico, ma il socialismo per via democratica, il che è ben altra cosa. Che socialismo? Boh. Nemmeno i sovietici lo capivano: per costruire il socialismo, prima o poi bisognerà violare la legalità “borghese”. Meglio abbassare le pretese. Fidel Castro non ci credette mai.
Chi meglio di tutti comprese tutto ciò furono proprio i socialisti cileni, che durante l’esilio, grazie agli stretti rapporti con la Spd tedesca e Felipe González, rifletterono sugli errori commessi e sulle virtù della democrazia rappresentativa e dell’economia di mercato. Tornati in patria, hanno governato una delle economie più aperte al mondo e garantito una straordinaria crescita al Cile, oggi incomparabile all'arretratezza strutturale dei Paesi che hanno marciato lungo la via del dirigismo clientelare e assistenzialista. Il Cile rimane un Paese molto diseguale? Sì, troppo, è vero. Ma bisogna amare più le proprie idee che i fatti per negare che, anche così, è stato molto più inclusivo di qualsiasi altro Paese dell’America Latina. E di molti europei!
Ma in Italia, ed è l’ultima riflessione che voglio fare, del Cile e dell’America Latina ci ostiniamo a conservare un’immagine ingiallita; non solo siamo fermi agli anni Settanta, ma ne parliamo come se ciò che pensavamo allora non richiedesse aggiustamenti o revisioni. È la sindrome di Eduardo Galeano che alimenta un vittimismo grottesco, che così poco ha a che fare con la storia e tanto col mito. Perché ci piace quel mito? Beh, oggi che l’America Latina siamo noi, che ne abbiamo importato il côté redentivo quando molti latinoamericani sono riusciti a sviluppare quello pragmatico e riformista, abbiamo la risposta: perché siamo così! Quel mito siamo noi come vorremmo essere! Di questo passo, ci riusciremo.
Riproduzione riservata