Mentre alle ormai prossime elezioni politiche la grande e rissossima famiglia del centrosinistra italiano rischia un significativo dimagrimento, al suo interno è dato osservare un fenomeno interessante. Che ripropone, grosso modo, quella riarticolazione di cleavages che sta in parte riconfigurando la politica a livello internazionale e nei vari sistemi politici occidentali. Così, nella politica nostrana, il perimetro del centrosinistra diventa una “grande chiesa” (citazione rubata a Lorenzo Cherubini), che va dalla formula della “tecnocrazia con l’anima”, o “con il cuore”, di Carlo Calenda al populismo barricadero di Michele Emiliano. Tra loro in conflitto diretto, intenti a guardarsi intorno per andare al di là dei recinti della sinistra di governo, sempre più ristretti, come suggeriscono i sondaggi e lo spirito del tempo. I due sono impegnati in un duello principale – quello, com’è noto, sul futuro dell’Ilva. Il ministro Calenda dal canto suo ha annunciato le proprie posizioni in maniera netta, e lo ha fatto principalmente via Twitter; strumento che, sotto vari profili, pare prediligere, maneggiandolo con competenza.

L’occupazione della scena da parete del ministro dello Sviluppo economico è una novità rilevante sul piano comunicativo e politico, a partire dalla volontà deliberata di incarnare personalmente l’attuale stagione di riconfigurazione delle fratture del conflitto politico, a proposito della quale si è spesa (a nostro avviso, non senza ragione) la suggestione di un esperimento di «macronismo all’italiana», seppure fatte le dovute distinzioni dovute ai differenti scenari socioculturale e istituzionali. Così, assistiamo a una sorta di “strategia dello spiazzamento” – anche se non siamo, né culturalmente né comunicativamente, dalle parti dell’applicazione dello spirito del détournement di radice situazionistica (che pure viene ampiamente praticato in un certo mondo della comunicazione allargato o prestato alla politica) –, che si focalizza sullo scompaginamento della più bersagliata delle dicotomie politiche tradizionali, quella destra/sinistra. Estendendola, poi, anche ad alcuni dei nuovi cleavages in via di affermazione (o già, almeno parzialmente, radicati), come quello società aperta/società chiusa e quello establishment/anti-establishment, rispetto al quale Calenda – anche per ragioni di percorso biografico (in quanto già dirigente confindustriale ed esponente di rilievo dell’impresa, poi arenatasi, di Italia futura) e di background familiare – rivendica la propria dimensione di “uomo di sistema”. Salvo adottare, nella prassi, uno stile comunicativo improntato a quello che, per riprendere un’espressione di Giovanni Sartori, potremmo etichettare come “direttismo”, e che di “establishment” ha assai poco.

Insomma, dopo la stagione meteoritica della rottamazione renziana, infrantasi contro il fallimento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, nonostante tutto qualcosa nello stagno della politique politicienne all’italiana si muove. Va detto peraltro che con Renzi il «cd tecnico di area» (come lo stesso Calenda si autodefinisce in un tweet del 23 dicembre scorso) intrattiene un rapporto altalenante e non facile. Il ministro si considera «liberista, ma non ideologico», si colloca nel campo «progressista» e del centrosinistra, e si sente in sintonia con la vision di un «partito liberale di sinistra», da alimentare con i progetti dell’Industria 4.0, delle battaglie contro l’immobilismo e la burocrazia, con un rinnovato patto sociale tra i produttori.

Si deve rilevare come la comunicazione di consensus-building e il marketing politico (ma non direttamente elettorale) calendiani lavorino per paradossi – a volte, giustappunto, quasi disorientanti con riferimento alla geografia novecentesca della politica – e successive ricomposizioni. Il suo storytelling – altro simil-paradosso, in epoca di narrazioni non di rado contorsionistiche – è quello del realismo, e Calenda ricorre spesso al frame della normalità, che è quello più utilizzato dalle retoriche populiste, a cui il titolare del Mise impone uno spin che lo cambia di segno, riportandolo in un alveo, peraltro, già appartenente al campo semantico e simbolico di una certa sinistra. Il ministro si fa latore di un progetto politico fondato sulla «modernità» (come ha dichiarato in un’intervista all’«Espresso»). Negli scambi di tweet con i suoi interlocutori spesso ricorre ai nomi di battesimo e al “tu”, salta frequentemente i segni di interpunzione, fa un ampio ricorso al primo pronome personale per rimarcare il proprio attivismo e l’interventismo in antitesi alla palude della politica “non decidente” (un chiaro lascito del modello di autonarrazione di chi spende negli affari pubblici un’esperienza imprenditoriale o proveniente dal settore privato). Alterna l’abbozzo di piattaforme politiche (per quanto lo consenta il numero di caratteri di un tweet…) – «[…] quello che conta è riuscire a costruire un fronte liberaldemocratico che metta in sicurezza il paese» (27 dicembre 2017) – ad affermazioni di coinvolgimento emotivo o volte a suscitare simpatia e identificazione: «Vi vedo belli carichi in questi giorni di festa! […]». Il suo paradigma è quello di una comunicazione dialogica, che esalta l’elemento empatico, traduzione emozionale del processo sociale, da qualche tempo egemonico, della disintermediazione. E, in controtendenza rispetto alle imputazioni – mossegli da avversari di orientamento populista – di palesare un’estrazione sociale qualificata (molto grossolanamente) come “radical-chic”, si mostra piuttosto propenso alla comunicazione interpersonale (come fa trapelare anche il video, twittato il 22 dicembre, del suo discorso con i lavoratori dell’Alcoa, una vertenza che ha presidiato con cura e che ha condotto a un esito positivo). Nelle tenzoni con gli avversari gioca sui tasti di un registro stilistico venato anche d’ironia e sarcasmo, all’insegna di connotati “antropologici” tipici della romanità. Come mostra la querelle con Gianluigi Paragone, al cui tweet («Qualcuno avverta @CarloCalenda che non è Gesù Bambino… #miracolidifineanno»), il ministro, il 28 dicembre, replicava: «Se c’è una cosa che ti rende consapevole dei tuoi limiti è fare il Ministro. Per questo ho scritto “mi occupo”. Per quanto riguarda poi gli esiti del “mi occupo” sono molto più incerti e discutibili. Però pure tu sotto le feste rilassati sembri una tigre in gabbia».

Calenda punta sulla disintermediazione, all’insegna di una duplice chiave: vicinanza ai cittadini, attraverso il dialogo con loro e le risposte sui social media; e distanza dal ceto politico. Un “populista d’establishment” oppure un “neo-elitista democratico”, verrebbe da dire, se non si trattasse di un ossimoro, ma la politica contemporanea è costitutivamente intrisa, per l’appunto, dei paradossi postmoderni.

Insomma, non perdiamolo d’occhio. Perché Calenda può essere – e non esclusivamente sotto il profilo comunicativo – una novità importante nella confusissima e difficilmente decifrabile stagione politica prossima ventura.

 

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