Michael Flynn che parla con i russi? È​ free speech, stupido! Incontrando l’allora ambasciatore russo a Washington, Sergey Kislyak, alla fine di dicembre 2016, e discutendo con lui di come il governo russo avrebbe potuto o dovuto reagire a certe decisioni del governo americano, Michael Flynn ha commesso un reato?

Il presidente era ancora Barack Obama, e Flynn lavorava per conto del transition team del presidente-eletto ma non ancora insediato Donald Trump. Sarebbe diventato National Security Adviser dopo il passaggio delle consegne, il 20 gennaio 2017, ma solo per pochi giorni. Era dunque un privato cittadino che conduceva negoziati di politica estera, in segreto e in contrasto con le posizioni ufficiali del suo Paese? O stava facendo un’operazione banale e necessaria, ovvero avviare contatti internazionali per la nuova amministrazione che sarebbe entrata in carica di lì a poche settimane?

Per ora Flynn è nei guai per uno dei classici incidenti procedurali che danno brio alla vita politica americana e cioè, non per le cose che ha fatto, ma per aver cercato di nasconderle.

È infatti accusato di aver mentito all’Fbi sui veri contenuti delle sue conversazioni con Kislyak, di averne nascosto la reale portata. Questo è un reato federale, quello di «rendere false dichiarazioni»: alle domande degli investigatori puoi rifiutare di rispondere, puoi dire «parlate con il mio avvocato», ma non puoi mentire. Di questo reato Flynn si è dichiarato colpevole, ha fatto un accordo con il procuratore e ha iniziato a collaborare con l’accusa. Come per chiunque sia accusato di un reato, anche il suo caso finirà davanti a un giudice. C’è in ballo una pena massima teorica di cinque anni di reclusione, che sembra sarà diminuita a una pena probabile di massimo sei mesi.

Ma che dire dell’accusa principale: aver svolto funzioni costituzionalmente riservate al presidente in carica a sua insaputa, senza il suo permesso o coinvolgimento, addirittura contro i suoi interessi, ma parlando a nome del Paese?

Azioni del genere sono vietate da una legge, il Logan Act, che risale all’alba della Repubblica, precisamente al 1799. Bisogna far ricorso ai libri di storia, a quando il presidente John Adams e la maggioranza congressuale federalista (e filoinglese) cercarono di impedire agli esponenti dell’opposizione jeffersoniana (filofrancese) di imbastire «manfrine» con il governo francese. Il signor Logan era un deputato quacchero della Pennsylvania che andò per suo conto a Parigi, incontrò un membro del direttorio e fece proposte di amicizia e pace, non si sa con quali risultati. È notevole che, per una volta, la legge prendesse il nome non di chi la presentò, ma di chi, in teoria, avrebbe dovuto subirne la forza dissuasiva (tre anni di carcere è la pena massima prevista).

Avrebbe dovuto, il condizionale è d’obbligo, perché nessuno è mai stato condannato in base a essa, né il signor Logan né altri fino a oggi.

All’inizio dell’Ottocento ci furono un paio di indictments (rinvii a giudizio) a cui non seguirono prosecutions (accuse formali), né tanto meno convictions (condanne). Poi più niente. Nell’ultimo mezzo secolo il Logan Act è stato agitato come «spauracchio» politico, tra l’altro del tutto inconsistente, dalle amministrazioni in carica per denunciare gli oppositori un po' troppo «maneggioni». I Repubblicani lo evocarono contro i senatori democratici o il reverendo Jesse Jackson che, in momenti diversi, andarono a Cuba quando era vietato farlo e vi ebbero incontri di livello. I Democratici, invece, lo blandirono contro i senatori repubblicani che cercarono di boicottare i negoziati di Obama con l’Iran, oppure contro Trump quando, nell’estate 2016, sembrò incoraggiare i russi a spiare le email di Hillary Clinton.

Potevano mancare i cospirazionisti? Certo che no: l’hanno evocato contro i partecipanti americani a qualunque incontro internazionale in cui si discutesse informalmente degli affari del mondo, cose tipo Gruppo Bilderberg e diavolerie simili.

Curiosamente, il Logan Act è raramente ricordato a proposito di un evento clamoroso che sembrerebbe un test case da manuale, se solo ci fossero state le prove, o magari si fosse indagato sul serio. Nell’estate-autunno 1968, nel pieno della guerra in Vietnam, il candidato repubblicano Richard Nixon cercò rapporti privati e segreti con il governo alleato di Saigon per sabotare gli ultimi disperati tentativi di pace di Lyndon Johnson prima delle elezioni di quel novembre. Il fallimento di quei tentativi, nelle intenzioni di Nixon, avrebbe potuto spingere un elettorato frustrato nelle braccia dei Repubblicani. Così infatti avvenne. Johnson sospettò il pasticcio, Nixon negò sempre.

Le prove sono emerse solo qualche anno fa, dagli archivi della Nixon Presidential Library.

Del Logan Act, comunque, si sospetta sia incostituzionale per la poca chiarezza che lo contraddistingue, quindi inapplicabile al giorno d’oggi. Potrebbe, addirittura, essere in violazione del Primo emendamento della Costituzione, la clausola sulla libertà di parola. Gli incontri privati con i russi di Michael Flynn, al netto dei giudizi politici (su di lui e su coloro che gli hanno dato ordini e con cui si è consultato), al netto delle conseguenze penali delle sue bugie (che poteva risparmiarsi), potrebbero, quindi, persino essere manifestazioni di free speech.

 

[Questo articolo è pubblicato anche su Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi]

 

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