La Turchia si allontana dall'Occidente? Domenica 29 marzo si terranno in Turchia le elezioni amministrative, che decideranno la sorte di oltre duecentomila sindaci e di centinaia di governatori provinciali. Ma la portata del voto va decisamente al di là della dimensione locale  e

appare piuttosto come un test particolarmente significativo per il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), che è al potere dal 2002 e che nel 2007 ha mostrato di godere ancora di ottima salute, aggiudicandosi le elezioni politiche con un solido 46,6% dei voti. In particolare il voto fornirà indicazioni utili sull’effettivo consenso dell’opinione pubblica turca alla progressiva de-occidentalizzazione del paese portata avanti dall’AKP nell’ultimo biennio, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. Sul piano interno numerosi provvedimenti del governo sono andati in direzione di una progressiva islamizzazione della società turca. A partire dalla proposta di riforma che "reinterpretasse" (abrogandola sostanzialmente) la legge che vieta l’utilizzo del velo islamico in tutti gli uffici pubblici, comprese le università. La Corte Costituzionale però ha bocciato questa riforma, dichiarando l’AKP colpevole di "attività anti-secolare", senza tuttavia accogliere la richiesta di messa al bando del partito avanzata dalla Procura Generale. La vicenda ha comunque avuto delle ripercussioni negative sull’AKP, il quale ha gradualmente perso il sostegno dell’opinione pubblica anche in merito alla gestione del processo di adesione all’Unione Europea. La popolazione turca si mostra sempre più insofferente verso le politiche adottate dal governo per rispettare i vincoli imposti da Bruxelles. Da parte sua il governo di Ankara accusa le istituzioni comunitarie del congelamento di alcuni capitoli del negoziato, accusando l’Ue di essere sottomessa ai diktat dei paesi ostili – Francia in primis – all’ingresso turco nel club dei Ventisette.

Il terzo versante di questa de-occidentalizzazione della Turchia è il progressivo rafforzamento delle relazioni con alcuni paesi dell’area mediorientale, tra cui l’Iran e l’Arabia Saudita, nonché il rapporto privilegiato che pare avere stretto con uno degli attori più discussi e problematici della regione, Hamas. Assistiamo qui ad una sorta di paradosso. Se attraverso questo riposizionamento il governo turco sta tentando di ammorbidire il tradizionale filo-atlantismo incondizionato per accreditarsi come mediatore in diversi tavoli negoziali dell’area mediorientale – dalla crisi del Caucaso, alla questione nucleare iraniana, passando per il conflitto arabo-israeliano – agli occhi di molti partner occidentali esso pare essersi sbilanciato troppo sull’altro fronte. In particolare la credibilità di Ankara sulla scena internazionale ha subito un duro colpo in occasione dell’ultimo Forum Economico Mondiale di Davos, il 29 gennaio scorso. Lo scontro tra Erdogan e Peres (durante il quale il premier turco ha abbandonato il panel di discussione accusando l’interlocutore di "parlare ad alta voce per coprire una coscienza sporca. Quando è il momento di uccidere voi sapete bene come farlo") ha da un lato infiammato l’opinione pubblica turca, che ha celebrato Erdogan come un eroe nazionale, ma ha reso definitivamente poco credibile la possibilità che Ankara svolga nel prossimo futuro un ruolo di mediazione tra Israele e Autorità Palestinese. Ad affossare definitivamente questa ipotesi è stata poi la decisione presa dalla Procura di Ankara di aprire un’indagine contro i vertici israeliani per "genocidio, torture e crimini contro l’umanità" commessi in occasione della recente operazione militare nella Striscia di Gaza. L’esacerbarsi della tensione tra Tel Aviv e Ankara rischia oltretutto di minare i rapporti tra la Turchia e gli Usa, in un momento particolarmente infelice, specie all’indomani delle aperture di Obama all’Iran. Per Washington la convergenza di vedute tra Erdogan e Peres era ormai divenuta un elemento portante della strategia statunitense in Medioriente, essendo sia la Turchia sia Israele due alleati storici degli Stati Uniti nella regione. Questo legame privilegiato ha a lungo garantito – nelle principali sedi internazionali – il sostegno degli Usa alla Turchia in merito all’annosa questione del riconoscimento del genocidio armeno. Dopo Davos alcuni analisti hanno previsto un’inversione di questa tendenza, sebbene nelle scorse settimane il neo-inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, abbia preferito glissare sul tema, rinviando a una data da definire l’annunciato dibattito al Congresso sul riconoscimento del genocidio armeno. Questa è probabilmente la conferma di come le relazioni tra Stati Uniti e Turchia rappresentino ancora un tassello fondamentale dell’agenda di politica estera americana (Washington, in particolare, non ha smesso di confidare in un ruolo di mediazione di Ankara tra Siria e Israele).

Alla vigilia dell’attesissimo tour europeo di Obama – che si concluderà proprio ad Ankara il prossimo 7 aprile – occorre insomma comprendere se effettivamente la Turchia stia immaginando di poter avviare una strategia di politica estera più indipendente da due attori sino a ieri fondamentali per le sue scelte internazionali, quali l’Unione Europea e gli Stati Uniti. L’esito delle prossime amministrative in Turchia e l’entità del successo elettorale dell’AKP – in cui potrebbe giocare un ruolo determinante proprio il coup de théâtre di Davos, che pare aver risollevato le sorti di un leader in calo di consensi - potranno offrire importanti indicazioni a riguardo. L’impressione è che lo sfogo del 29 gennaio sia stata una mossa elettorale di cui Erdogan non abbia considerato tutte le possibili conseguenze.