Lo aveva già detto. Aveva già preannunciato di avere in testa un «grande piano nazionale per la fertilità». In un’intervista ad «Avvenire» il 21 aprile del 2014 la ministra Beatrice Lorenzin aveva dichiarato di voler arrestare la «decadenza» rappresentata dai bassi livelli di fertilità dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei. Poi ce ne siamo dimenticati, fino a quando ha promosso una campagna per il #fertilityday che è riuscita a scontentare veramente tutti.

Molto è già stato detto: il sapore fascista degli slogan che suggeriscono un ruolo da angelo del focolare per la donna; il contributo puramente biologico dell’uomo chiamato in causa sotto le coperte, ma estraneo alla crescita e alla cura dei figli; la mancanza di realismo in un momento in cui un mercato del lavoro votato alla flessibilità non offre – quando è il caso – alcuna prospettiva di relativa stabilità anche solo di medio periodo; il riposizionamento della fertilità quale affare di Stato.

C’è ancora un punto importante su cui vale attirare l’attenzione, ovvero il manifesto in cui si illustrano le linea guida del Piano Nazionale per la Fertilità. Ciò che sconcerta è l’introduzione, separata rispetto al corpus del documento. Il testo contiene una buona roadmap su come trasmettere le informazioni, attraverso quali canali e quali attori, con azioni diverse in base al target di riferimento. Sono tutte azioni basate su ricerca e prassi mediche, messe insieme dal tavolo consultivo varato dal Ministero. Anche in questa parte, purtroppo, il linguaggio tradisce una certa idea di società che ha «scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte del mondo del lavoro, sospingendole, però, verso ruoli maschili».

I toni paternalistici e conservatori – usati profusamente all’inizio – non sembrano scritti nel 2016, ma richiamano quelli del Discorso dell’ascensione del 1927 di Benito Mussolini («Il numero è la forza»). Infatti, si parla di «capovolgere la mentalità corrente per rileggere la fertilità come bisogno essenziale [sic!] non solo della coppia ma dell’intera società» e di «celebrare questa rivoluzione culturale [sic!] istituendo il #fertilityday, Giornata nazionale di informazione e formazione, dove la parola d’ordine sarà scoprire il Prestigio della Maternità». Anche Mussolini con la legge del 22/5/39 aveva istituito la Giornata demografica per il 3 marzo di ogni anno, oltre a premi di nozze e di fertilità!

Tornando al 2016, una seria campagna di pubblicità progresso (e non regresso) avrebbe dovuto puntare su – per esempio – due fondamentali informazioni: le possibilità di congelamento degli ovuli e le patologie diffuse (e sottovalutate) tra gli uomini (il varicocele) e le donne (l’endometriosi). Questo è il tipo di informazione che produce conoscenza e quindi, consapevolezza e prevenzione. Questa è la sensibilizzazione necessaria verso temi che si intrecciano profondamente con altre scelte di vita (in termini di salute, famiglia, lavoro, istruzione) che attengono alla sfera personale. Infine, una seria campagna di sensibilizzazione non dovrebbe confondere la fertilità, quale capacità biologica, con fecondità, cioè il numero di figli per donna. Purtroppo, questa confusione è alla base della replica della ministra quando afferma che «Non si devono mettere insieme i problemi sociali e quelli sanitari». Sappiamo invece che è questa la premessa necessaria per lo studio di politiche adeguate.