La discussione ingenerata dalle varie ondate di pandemia ha messo in luce una serie di vizi intellettuali probabilmente non nuovi, ma da cui forse potremmo provare a guarire. Una speranza che potremmo nutrire (certo forse una speranza minore rispetto a quella di liberarci dalle costrizioni e dai timori della pandemia) è forse quella di uscire da questa situazione con una maggiore consapevolezza di alcuni tic intellettuali, di alcuni piccoli vizi, e così di imparare a evitarli. Per esempio, uno di questi vizi è quello di rimproverare gli altri partecipanti alla discussione di errori che commettiamo noi stessi, e proprio nel momento in cui muoviamo le nostre critiche. Abbiamo assistito a vari esempi di questo nella discussione avvenuta nella prima fase della pandemia – quando per ragioni ovvie i virologi hanno assunto un ruolo predominante nel dibattito. Certi virologi hanno espresso punti di vista sostenuti dalla migliore scienza a nostra disposizione con un dogmatismo molto lontano dalle cautele epistemologiche tipiche delle scienze naturali, per esempio.

Gli aedi del dubbio e i critici dello scientismo hanno spesso fatto uso di argomentazioni "scientifiche" – inanellando dati, presunte debolezze sperimentali del vaccino e così via

Nella seconda fase della discussione, quella più recente, gli aedi del dubbio e i critici dello scientismo hanno spesso fatto uso di argomentazioni presuntamente scientifiche – inanellando dati, presunte debolezze sperimentali del vaccino e così via. È questa una modalità tipica di una discussione diversa, e precedente, quella sul cambiamento climatico. Molti negazionisti climatici contestano i dati scientifici assumendo un ideale di certezza scientifica e requisiti di rigore eccessivi, che non verrebbero richiesti in alcun altro caso. Per dirla più chiaramente: siccome i dati che sostengono gli scenari sul cambiamento climatico futuro non forniscono certezze assolute, ma al massimo probabilità – anche se probabilità spesso schiaccianti –, i negazionisti dicono che i mutamenti futuri del clima sono solo probabili e le cause umane di essi solo presunte.

Ma naturalmente nelle scienze naturali ci sono solo tendenze probabili. La certezza assoluta – la certezza logica o concettuale – non è appannaggio delle scienze empiriche. Pretenderla per la scienza del cambiamento climatico e accettare le conclusioni probabilistiche in tutti gli altri campi è del tutto pretestuoso. Come pretestuoso è accettare gli effetti collaterali di tutte le medicine di uso comune ed esagerare quelli dei vaccini contro il Covid, ovviamente.

Questo tipo di argomentazioni si accompagnano spesso a errori statistici – errori di vario tipo: fallacie di composizione, ricorso a basi di dati incomplete, estrapolazioni ardite. Alcuni di questi errori sono stati messi in luce in maniera molto efficace nell’articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti, comparso su «la Repubblica» del 21 dicembre e intitolato Le sciocchezze dei filosofi.

La cosa curiosa è che chi compie questi errori, come per esempio gli esponenti più in vista della Commissione Dubbio e Precauzione, impiega argomentazioni evidentemente e curiosamente autocontraddittorie, cosa questa che forse sfugge a Boeri e Perotti. Da un lato, contesta il presunto imperio della scienza naturale – e auspica di dare spazio a saperi che non tengono conto dei risultati e delle metodologie delle scienze empiriche. Dall’altro, questi stessi metodi e saperi usa maldestramente, asserendo implicitamente di riconoscere il dominio del tipo di conoscenza che esplicitamente contesta. I critici della scienza, insomma, sono in realtà succubi della mentalità scientifica. Anche se, molto spesso, dimostrano di averla assorbita poco e male. Insomma, si tratta piuttosto di concorrenti della scienza: persone che vorrebbero avere il ruolo pubblico, gli strumenti, forse anche il rispetto che (forse anche esagerando) attribuiscono agli scienziati naturali. Il timore che tutto si risolva in una gara per assicurarsi un po’ di visibilità, costi quel che costi, si fa sempre più forte.

Se non si distinguono metodi e saperi differenti si rischia di rendere tutto retorica, tutto esercizio del potere, annullando qualsiasi pretesa di esprimere o raggiungere una conoscenza autentica

Tutto questo manifesta due vizi intellettuali piuttosto pericolosi. Da un lato, questo tipo di contestazioni autocontraddittorie ottunde la sensibilità per la coerenza e le distinzioni epistemologiche e disciplinari, una sensibilità che necessita di essere esercitata. Se non si distinguono metodi e saperi differenti si rischia di rendere tutto retorica, tutto esercizio del potere, annullando qualsiasi pretesa di esprimere o raggiungere una conoscenza autentica. E questo manifesta un’altra contraddizione. Proprio chi, come spesso fanno alcuni critici del discorso scientifico ufficiale, sostiene che il sapere è in fondo una forma di potere e non ci sono saperi neutri finisce per cadere preda del suo stesso mantra. Se tutto è potere, anche la denuncia del potere, anche il discorso smascherante non sono che forme di lotta per il potere. E allora inutile curarsene, sinché la denuncia rimane minoritaria e non ha il potere di imporsi come discorso predominante. Quando sarà discorso dominante, ci allineeremo, certo. Inutile che veniate a dirci contemporaneamente che non ci sono verità assolute, ma solo prospettive, e aggiungiate però che si deve rispettare la libertà di pensiero, che non dobbiamo censurarvi e che siete minoritari ma nel giusto come le prime sette cristiane. Tutte le argomentazioni migliori a favore della libertà di pensiero presuppongono che ci siano verità assolute – se non altro la verità secondo cui il pensiero libero ha un valore intrinseco.

L’insistenza sui dati scientifici e sulla loro critica, o sulla loro difesa, fa perdere di vista altre dimensioni di pensiero e di discussione pubblica

Dall’altro, l’insistenza sui dati scientifici e sulla loro critica, o sulla loro difesa, fa perdere di vista altre dimensioni di pensiero e di discussione pubblica. Proprio chi è consapevole del valore dei dati scientifici dovrebbe rendersi conto anche dei loro limiti e ammettere che ci sono spazi di discussione che sono inevitabilmente politici, e non scientifici. Per esempio, la decisione su quanti e quali rischi assumersi, e quanti rischi far correre ai propri concittadini non può essere scientifica – o almeno non può derivare soltanto dalle scienze naturali. Decidere se maggiori probabilità di rischio per alcuni gruppi di cittadini possano essere compensati da migliori condizioni di vita (per esempio da maggiori opportunità economiche) per un numero molto maggiore di altri cittadini è una decisione politica – che può anche essere difesa con argomentazioni oggettive, ma non è certo una decisione che possa derivare da dati provenienti dalle scienze naturali.

L’idea di ridurre tutto alla scienza naturale – sia intendendola come depositaria di tutte le verità che ci servono sia considerandola la fonte di tutti gli errori e di tutte le nefandezze– è un altro errore che dovremmo evitare. Le sciocchezze di alcuni filosofi non sono soltanto gli errori statistici che commettono, come molte altre categorie. Le sciocchezze sono anche e soprattutto quelle politiche, la scarsa capacità di argomentare in maniera nitida sulla libertà e sul bilanciamento fra varie libertà e l’uso retorico e vuoto di certe formule falsamente rivoluzionarie o emancipatorie.

Le argomentazioni capaci di correggere queste sciocchezze vengono spesso da altri filosofi, per cui è un errore, forse anche una sciocchezza da economisti, se mi si permette, parlare di «sciocchezze dei filosofi», avallando l’idea che la filosofia sia solo quella più rumorosa e notiziabile, per così dire, quella che occupa la posizione dominante nel piccolo mercato delle polemiche italiane, confondendo l’autorevolezza delle idee sensate con l’autorità esercitata da chi fa chiasso e alimenta il pollaio che serve talvolta a riempire le pagine di un quotidiano. È un errore statistico, o comunque descrittivo, suggerire che la filosofia coincida in tutto e per tutto con la Commissione DuPre. Un errore che diventa esempio di autocontraddizione in chi rimprovera le fallacie statistiche di alcuni filosofi.