Mercoledì scorso, nella cornice gotica e austera del Duomo di Milano, si sono celebrati i funerali di Stato di Silvio Berlusconi. La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini e ha visto la partecipazione di un alto numero di personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport, oltre che della politica e delle istituzioni. Solennità di rito a parte, si è assistito a una liturgia sobria e senza eccessi, dove le parole pronunciate si sono limitate a quelle strettamente previste dal rito.

Tra le parole più attese figuravano quelle dell’omelia di monsignor Delpini, cui spettava un compito non facile anche alla luce dei trascorsi tra la Chiesa italiana e l’allora presidente dei vescovi italiani Camillo Ruini, da una parte, e l’ex presidente del Consiglio e i suoi governi, dall’altra. Delpini ha pronunciato un’omelia durata meno di sette minuti, divisa in quattro parti che, eccetto l’ultima, hanno offerto alcune riflessioni generali a partire da tre (ma in realtà più) verbi all’infinito: vivere, amare ed essere amato, essere contento – come espressioni di un’antropologia minima valevole per ogni essere umano. L’ultima parte si è concentrata sull’uomo Berlusconi e ha concluso con l’immagine di Berlusconi uomo al cospetto di Dio. Il tono dell’arcivescovo si è mantenuto serio, ai limiti dell’inflessibile, senza cedere al clima di esaltazione visto in tv e più in generale sui social media nelle 48 ore che hanno preceduto e seguito le esequie.

Il tono dell’arcivescovo si è mantenuto serio, ai limiti dell’inflessibile, senza cedere al clima di esaltazione visto in tv e più in generale sui social media nelle 48 ore che hanno preceduto e seguito le esequie

Nella prima parte del discorso, l’arcivescovo ha descritto il vivere degli uomini e delle donne: un vivere che si accompagna all’amore per la vita e al desiderio di una vita buona per sé e per i propri cari, un vivere come occasione per mettere a frutto ciò che si è ricevuto, un vivere che chiede di resistere davanti ai momenti più difficili ed è sinonimo di sperare anche contro ogni speranza. La seconda parte ha avuto come tema l’amare proprio di ogni uomo e donna: un amore che richiama una promessa e una fedeltà, un amore che è desiderio infinito e insieme timore che esso sia una concessione o un sentimento precario. Nella terza parte, Delpini ha tratteggiato la felicità che ogni essere umano può sperimentare: un essere contenti, secondo il prelato milanese, che è godere il bello della vita, ma anche accorgersi della sua finitezza. Da notare è il fatto che ognuna di queste parti si sia conclusa allo stesso modo: ogni desiderio di vita, di amore e di gioia che è proprio dell’uomo «trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Si possono leggere queste prime tre parti in modo contrastante, ma rimane il dubbio che la loro genericità serva a un ridimensionamento del Berlusconi imprenditore e politico, non alla sua sottovalutazione né al suo elogio: se la figura celebrata dai media ben oltre il de mortuis nil nisi bonum viene ridotta all’uomo qualunque, non si può tacere che quella del pastore della Chiesa ambrosiana appare come un’interpretazione severa, che riconosce all’uomo che ha dominato per trent’anni la scena politica italiana il solo livello minimo, l’umanità come residuo quando si è davanti a un personaggio perlomeno controverso – per chi scrive (certo di essere in compagnia di molti altri italiani), il principale responsabile del declino culturale, sociale e politico del nostro Paese negli ultimi anni.

Ma, se ciò non bastasse, Delpini ha messo in relazione ogni elemento di questa sua antropologia minima con il giudizio di Dio e il compimento in lui di ognuno degli elementi evocati. Il vescovo Delpini è stato accusato di indulgenza, se non anche compiacenza con la figura e la parabola di Silvio Berlusconi, ma questa critica non tiene conto del peso del richiamo al giudizio divino e al compimento in Dio nel discorso dell’arcivescovo: il giudizio non può essere nostro, mentre il compimento può non essere automaticamente conferma e benedizione, ma diventare denuncia e riaffermazione del vero.

È una critica, quella rivolta a Delpini non solo da attivisti cattolici sui social media ma anche da figure di riferimento del cattolicesimo della sinistra movimentista, che rischia di trascurare il fatto che la traiettoria storica degli individui resta ambigua: come ricorda una delle più note e ferme tradizioni sapienziali della Bibbia, sul triplice desiderio di vita, di amore e di gioia di ogni essere umano incombe sempre il monito di Qoelet, vanitas vanitatum et omnia vanitas.

Ma l’omelia di Delpini si può leggere anche alla luce del paradosso. Nell’ultima parte, il presule nomina Berlusconi per la prima volta e ne parla con un’ovvietà che filtra rassegnazione: «Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari», fino a guardare solo «ai numeri a non ai criteri». Poi ancora sull’uomo impegnato in politica: «Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere». Infine sull’uomo in cerca di popolarità: «Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena». Dopo questo ritratto dell’uomo affarista, scriteriato, ossessionato dalla vittoria e dai riflettori, al vescovo rimane solo una domanda: «Che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi?». Delpini mette da parte quello che poteva sembrare esaltazione del personaggio e riprende la sua antropologia minima: «È un uomo e ora incontra Dio».

Da un punto di vista stilistico, si può discutere se il taglio dato all’omelia fosse quello più adatto al momento. La questione fa parte della generale crisi del genere letterario dell’omelia nelle chiese cattoliche, un segno dello scompaginamento del sistema ecclesiale in cui le aspettative sono sempre più quelle tipiche di un mercato delle idee e delle identità religiose – e politiche e culturali. Ma, da un altro punto di vista, dovrebbe essere ovvio che riflettere su un testo implichi di ricostruire lo scopo profondo che lo ha motivato. A mancare invece è ciò che la storia, la teologia e la spiritualità possono dire in merito a omelie per circostanze simili. Come ha scritto un parroco milanese, don Enrico Parazzoli, il vescovo Delpini ha seguito «l’unica strada percorribile, certo in coerenza con il suo stile, ma anche alla constatazione dell’inutilità di rimproverare o ribadire o prendere posizioni in morte».

La storia di Silvio Berlusconi è una storia vincente perché i suoi effetti sono radicati e hanno penetrato l’inconscio individuale e collettivo degli italiani, inclusi i cattolici

Quello che alcune critiche a monsignor Delpini dimenticano riguarda anche i cambiamenti profondi che si devono ad anni di egemonia berlusconiana (per usare in modo non strumentale un termine ben applicabile al dominio dell’imprenditore e poi politico nato a Milano 86 anni fa). La storia di Silvio Berlusconi è una storia vincente perché i suoi effetti sono radicati e hanno penetrato l’inconscio individuale e collettivo degli italiani, inclusi i cattolici (tra cui chi scrive). Tra il berlusconismo e il cattolicesimo si è consumato un rapporto andato ben oltre il ruinismo, che ha sempre goduto di autonomia nell’impostare la curvatura culturale che il cattolicesimo avrebbe formulato davanti al Paese, specialmente nel delineare un sistema bipolare assurto a sistemi metafisici differenti (quasi un progetto americano).

Il rapporto tra il berlusconismo e la Chiesa ha a che fare con le culture cattoliche provenienti dal concilio Vaticano II (1962-1965) e ha a che fare con un modello di politico e di cittadino che si rivela incompatibile con l’idea di un pubblico da intrattenere, sia che questo intrattenimento abbia per obiettivo la neutralizzazione del conflitto sociale, sia che miri al suo trasferimento dal piano sociale a quello personale (con declinazioni che vanno dal generazionale all’etnico).

Si ha un’idea di questa compenetrazione se si guarda alle traiettorie seguite dalla dottrina sociale della Chiesa dopo gli anni Novanta. Una certa eclissi pubblica dei suoi principi base ha coinciso con una narrazione politica che ha affascinato l’Italia in modo trasversale, modellatasi sulla rimozione di quella che Luca Barra ha descritto come «differenza tra il fare e il sembrare». Nella temperie in parte inaugurata e in parte intercettata dal berlusconismo, la domanda su che cosa si può dire di Silvio Berlusconi chiama in causa anche la Chiesa cattolica.