Questo articolo fa parte dello speciale La morte di Berlusconi
Ogni discorso che metta a tema le costruzioni culturali attraverso cui, negli anni del berlusconismo, si è dato corpo socialmente alla percezione delle differenze tra uomini e donne, così come tra una sessualità legittima e vincente e una deviante, deve sopravvivere ai tentativi di marginalizzazione o, nella migliore delle ipotesi, alla generale obiezione secondo cui analizzare tali aspetti non illuminerebbe le questioni centrali: le ragioni dell’ascesa e del successo di Berlusconi, le matrici del consolidamento del suo potere, i nodi posti sul piatto dalla forma e dalla sostanza delle sue politiche, la sua eredità.
Come ci ha ricordato la pletora di opinionisti chiamati a commentare l’evento nelle giornate del lutto nazionale, nel momento della solennità del rito collettivo i confini del “politico”, di cosa cioè è rilevante politicamente e cosa non lo è, si sono stretti facilmente attorno a una definizione totalmente patriarcale di sfera pubblica, imperniata su un’agenda di temi nella quale non c’è stato posto per il genere e la sessualità, se non nei termini di fugaci riferimenti a semplici fatti di costume.
È già successo in passato. Nel novembre del 2011, all’indomani delle dimissioni di Silvio Berlusconi che aprirono la strada al governo dei tecnici, calò rapidamente il silenzio sugli “scandali sessuali” che avevano segnato, certo non senza effetto, il declino del potere incontrastato dell’uomo politico. Poco prima, la ripresa di un forte e variegato movimento delle donne aveva posto al centro del dibattito l’insofferenza verso un regime della rappresentazione femminile svilente e totalmente scollato dai vissuti quotidiani della maggioranza delle donne. In quelle settimane, una maschilità totalmente ripulita dagli eccessi, ammantata di perfetta correttezza istituzionale, fece tirare un sospiro di sollievo a chi aveva sofferto di un clima culturale e di uno stile politico sempre più intollerante (orgogliosamente intollerante), misogino e omofobo.
L’indicibilità del genere non è una novità, anche allargando la prospettiva alla storia. Se la categoria di genere funziona – così tanto da produrre, dagli anni Settanta in poi, una letteratura ormai sterminata – è, infatti, proprio perché illumina aspetti centrali, costitutivi delle relazioni di potere; ma che, proprio per questo, non si vedono, restano in una profondità insondata che si snoda nel tempo lungo, ben oltre il giorno per giorno della cronaca. In particolare, la maschilità storicamente si è definita come neutra e universale. Rispetto a ciò, porre le donne al centro e, ancor di più, porre l’accento sui processi di “costruzione” del genere è sempre un’operazione controcorrente, di disvelamento, che si oppone a processi di “naturalizzazione”, fondamento della sua pregnanza culturale e politica.
Del resto è stato così nel momento cardine di fondazione storica della cittadinanza contemporanea quando, nei giorni turbolenti della Rivoluzione francese, fu uno scandalo affiancare alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), che affermava che la nazione era composta di uomini e di donne. Da lì, e ancor più compiutamente nel corso del Novecento – come ha ben ricordato il comunicato della Società Italiana delle Storiche del 14 giugno scorso (“In morte di Silvio Berlusconi”) – la “faticosa marcia verso la parità e la messa in discussione degli assetti tradizionali della famiglia e della sessualità” è stata lunga. Tuttavia, opporre le ragioni della storia a quelle che continuamente vengono ribadite come le ragioni della natura resta un’operazione tutt’altro che semplice.
È contro questo velo di marginalizzazione che occorre, dunque, collocare l’analisi. Da questo punto di vista, penso in prima battuta non si possa far altro che rivedere quegli anni da spettatrici quali eravamo, innanzitutto, e mettere al centro uno sguardo che necessariamente è situato, non universale e molto probabilmente non condiviso da tutti coloro che hanno intercettato con le proprie biografie quella stagione.
Per noi donne e per tutte le soggettività dissonanti sul piano della sessualità quegli anni sono stati dolorosi. Impossibile dimenticare le implicazioni liberticide della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, promulgata il 19 febbraio 2004 durante il secondo governo Berlusconi e riconfermata all’indomani del fallimento del referendum abrogativo del 2005, con il forte sostegno della Conferenza Episcopale Italiana. Allora, proibendo la diagnosi preimpianto e la fecondazione eterologa e imponendo una lunga serie di restrizioni anche alle coppie omosessuali, si diede sostanza giuridica e legittimazione statale a un’opzione storicamente di parte (laica e cattolica) che voleva fondare la procreazione legittima su una famiglia “naturale” di uomini e donne e che voleva riconoscere “il concepito” quale soggetto alla pari degli altri (donne in primis) nella scena della riproduzione. Come è noto, passaggi importanti di quella normativa sono stati poi riconosciuti incostituzionali. Non è secondario, tuttavia, ricordare che in questi mesi la proposta del partito di maggioranza (Fratelli d’Italia) di istituire un “reato universale” per la “gestazione per altri” andrebbe a far agio di nuovo sulla legge 40, estendendo l’applicazione delle pene previste per la “surrogazione di maternità” anche ai casi in cui questa sia praticata all’estero.
Né è possibile dimenticare il sostegno di Forza Italia al (primo) Family Day del 12 maggio 2007, organizzato dalle associazioni cattoliche sotto un’alta regia ecclesiastica per reagire al primo progetto di riconoscimento delle coppie di fatto (“Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, abbreviato in Dico). Fu allora che si imposero i discorsi che danno sostegno all’attuale onda anti-gender, pro-life, forte e rappresentata ai piani più alti del governo del Paese.
Fu allora che si imposero i discorsi che danno sostegno all’attuale onda anti-gender, pro-life, forte e rappresentata ai piani più alti del governo del Paese
E, ancora, non è possibile dimenticare le dichiarazioni rilasciate da Silvio Berlusconi presidente del Consiglio nel febbraio 2009 a proposito del drammatico caso di Eluana Englaro, quando “necessità e urgenza” vennero invocate per giustificare la decretazione d’urgenza del governo in nome della presunta intatta capacità della donna in fin di vita “di avere figli”. Una pagina nera della nostra storia democratica e istituzionale. Né possiamo dimenticare, oltre alla questione dello scambio sessuo-economico-politico posto alla base della gestione del potere berlusconiano e dell’immaginario che ne era implicato, esternazioni sessiste e omofobe come quella pronunciata alla Fiera di Milano nel novembre 2010, nel pieno dell’affaire Ruby, “meglio essere appassionati di belle donne, che di gay”. Ma gli episodi da ricordare sarebbero ancora molti, per poterli richiamare tutti qui.
Ma occorre ripartire da questa memoria fatta di fatica fisica, emotiva – personale e in parte collettiva – per contestualizzare le reazioni, le prese di parola, gli errori e i rischi di caduta nella normatività, che pure sono stati corsi nei giorni dell’ondata di indignazione che ha visto le donne protagoniste, rischi che spesso sono approdati a un’opposizione, pericolosa e controproducente, tra “donne per bene” e “donne disposte a tutto”, tra donne “autentiche” incarnatrici delle virtù di una nazione che voleva risorgere e redimersi dallo scandalo e donne “rifatte”, vittime di una rappresentazione del femminile deformata o consapevoli artefici e manager della propria bellezza. L’eredità del berlusconismo va misurata oggi nella distanza da quel tempo e nella consapevolezza che quelle voci di donne hanno aperto uno straordinario dibattito sul nesso tra potere, sessualità e genere, praticando un conflitto anche aspro tra (auto)rappresentazioni del femminile che è stato prezioso e da cui occorre ripartire. Perché lì si trovano nodi politici fondamentali. Mi pare dunque necessario sottolineare alcuni elementi di metodo.
L’eredità del berlusconismo va misurata oggi anche nello straordinario dibattito sul nesso tra potere, sessualità e genere, praticando un conflitto anche aspro tra (auto)rappresentazioni del femminile
Le lenti che dobbiamo inforcare per analizzare quegli anni non possono essere quelli della “storia dei costumi”, sessuali o meno che siano. Ora più di allora dobbiamo mobilitare una cassetta degli attrezzi che ci consenta pienamente di uscire dalla denuncia scandalizzata e di entrare compiutamente dentro l’analisi del berlusconismo come produttore di immaginario e di una cultura di consumo molto potente. Gli studi che, proprio dagli anni Ottanta, si sono moltiplicati attorno al tema delle moderne culture di consumo hanno messo in evidenza la liaison dangereuse che, alle origini della società dei consumi ottocentesca, è stata postulata tra la merce e il desiderio delle donne di consumare. Da allora, il consumo per sé delle donne è stato a lungo tematizzato come un “pericoloso” territorio di emancipazione individuale, di conquista di spazi urbani al di fuori dello spazio protetto della casa, di attraversamento di confini, di sperimentazione e ribellione. Pensiamo, ad esempio, ai consumi per il corpo dai cosmetici alla moda, alla biancheria intima, ma anche ai consumi domestici negli anni del “miracolo economico”, quei ruggenti Sessanta del XX secolo in cui la rivoluzione degli elettrodomestici si accompagnò con pressanti interrogativi su come sarebbe stato utilizzato dalle donne quel tempo “liberato” e sottratto alle fatiche domestiche. La donna consumatrice, in una parola, di elettrodomestici come di romanzetti rosa, di calze velate come di film erotici, ha sempre fatto discutere e non è un caso che il suo desiderio di merce e, soprattutto, di godimento sia sempre stato potentemente equiparato alla prostituzione, al consumo di sé, del proprio corpo, atto massimamente perturbante dell’ordine morale di genere.
Il berlusconismo degli anni Novanta e Duemila riallaccia il filo lungo di questa relazione storica tra consumo, desiderio, genere e sessualità, mettendo al centro la dicotomia tra donna-vittima, travolta dalle pulsioni del mercato, e donna intraprendente, e in fondo di nuovo parlandoci del nodo della libertà e del potere, tra costruzione sessuata della nazione come comunità politica, di cui le donne sono il perno, e dinamiche di mercato, di cui le donne sono vittime ma anche agenti primarie. Nella dialettica tra sguardo normativo di cui le donne sono oggetto e autodeterminazione del soggetto femminile, gli studi ci suggeriscono di superare la contrapposizione fuorviante tra una supposta “realtà” autentica delle donne e una “rappresentazione” culturale, operata dalla cultura di massa, che si suppone artificiale e indipendente, tra una moralità virtuosa, che però silenzia il desiderio, e un terreno scivoloso, che rischia e ha rischiato di riprodurre forti asimmetrie di potere tra uomini e donne ma che ha avuto dalla sua, per voce delle donne stesse, la capacità di nominare il nesso tra sessualità, genere e potere. Nella consapevolezza della forza conturbante delle donne e dei soggetti dissidenti, dobbiamo, inoltre, recuperare la riflessione di Ida Dominijanni sulla maschilità e il suo fantasma di morte e perdita di vigore, che certo ci aiuta non poco a cogliere nel modello Berlusconi le implicazioni profonde di una maschilità dalla forte apparenza machista ma anche così profondamente in crisi, “umana” nella sua percezione di debolezza e in questo modo capace di suscitare empatia e identificazione.
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