Tra gli emendamenti apportati alla legge di bilancio 2023, ce n’è uno che ha sollevato particolare scalpore e indignazione su più fronti. Si tratta di un articolo (il 78-bis) che, apparentemente, modifica la legge n. 157/1992 sulla protezione della fauna selvatica e il prelievo venatorio, il cui ambito di applicazione comprende molte specie protette, tra le quali il cinghiale, il lupo, l’orso e il cervide. Un raffronto tra i due testi conduce, però, a ridimensionare la portata innovativa della recente iniziativa, e accredita piuttosto l’idea che essa intenda dimostrare qualcosa: una riconquista, da parte dell’uomo, dei propri confini e del proprio ambiente, un ritorno a rapporti di forza dove l’animale è in posizione subordinata e il diritto serve a punirlo.
La precedente formulazione attribuiva alle regioni la possibilità di vietare o ridurre la caccia alla fauna selvatica per periodi limitati e per motivi legati “alla consistenza faunistica”, a “condizioni ambientali, stagionali o climatiche, malattie o calamità”: la regola generale era il regime venatorio, mentre la sua sospensione si configurava come derogatoria. Del resto, era molto ampia la previsione di ipotesi che legittimavano gli abbattimenti anche in zone inibite alla caccia, dalla “selezione biologica” alla “tutela del patrimonio storico-artistico”. Insomma, se la finalità dichiarata della legge era la tutela della fauna selvatica, le sue eccezioni costituivano il motivo trainante dell’iniziativa legislativa. Come dire, l’eccezione – più che confermare la regola – diventava la regola. Già allora quindi veniva a crearsi un disallineamento, sia pur malcelato, rispetto alle direttive europee in materia di conservazione degli habitat naturali, di cui la legge 157 avrebbe dovuto costituire l’attuazione: prima tra tutte la direttiva europea Habitat (Cee/43/92), espressione di una volontà autenticamente protettiva, di richiamo degli Stati membri a convergere sul divieto di uccisione delle specie protette.
Se si raffrontano le due norme, la vecchia e la nuova, la modifica si rivela più proclamata che reale. In effetti, quella relativa agli abbattimenti cittadini non è una novità: l’emendamento attuale esplicita solo più chiaramente quali siano le “zone vietate alla caccia” nelle quali controllo e abbattimento possono essere esercitati, ovvero le aree protette e le aree urbane. Anche sulla “licenza di uccidere” non si segnalano novità rilevanti, a parte la necessità che gli addetti seguano corsi di “formazione” appositi (sic!). Persino i Piani di contenimento non dovrebbero far notizia, perché erano già previsti dalla legge 157. Le uniche sostanziali “evoluzioni” riguardano la possibilità di utilizzare i cadaveri animali a scopo alimentare e l’estensione alle province della competenza ad applicare il regime di abbattimento.
Il “diritto di uccidere in città” sembra più che altro rivolto a segnalare la riappropriazione degli “antichi valori”, riesumando uno spirito della legge che costanti sforzi di civiltà avevano portato a ridiscutere costruttivamente
Si avverte allora il sapore propagandistico di un proclama, come se si fosse inteso riaffermare una vecchia prerogativa umana, quel potere di vita e di morte sugli altri esseri che rassicura su una restituzione conservatrice della nuova guardia: nei contesti urbani sarà sempre possibile, stanti le ragioni sopra elencate, uccidere l’invasore selvatico. In definitiva, “diritto di uccidere in città” sembra più che altro rivolto a segnalare la riappropriazione degli “antichi valori”, riesumando uno spirito della legge che, faticosamente, lenti ma costanti sforzi di civiltà avevano portato a ridiscutere costruttivamente.
L’ordinamento giuridico è abituato a disporre degli animali, in una logica di antropocentrismo suprematista, in cui neppure per un attimo ci si sofferma sulle responsabilità politiche che fanno da preludio a fenomeni come il sovrappopolamento di talune specie. La colpa è unicamente degli animali che sconfinano, che rovinano i raccolti e il decoro urbano. Dunque è lecito sanzionarli alla stregua di delinquenti che non seguono la norma, che hanno dimenticato le “buone maniere” e il rispetto degli altri.
Il diritto umano, per lo meno quello italiano, non ha finora adottato pienamente “il punto di vista animale”. E tuttavia, questo passo legislativo appare comunque come una retrocessione, non tanto per la sostanza innovativa, quanto per il principio che intende rivendicare: la potestà umana sul mondo naturale. Le conseguenze di questo atteggiamento, politico prima ancora che giuridico, appaiono assai significative, e non certo in positivo: sono cattive semine di mentalità, di valori in cui inscrivere una società.
Fino a oggi si poteva intravedere, o quantomeno immaginare, un modo diverso di includere l’animale selvatico nel consorzio civile, nell’ordinamento giuridico umano: da molte decadi si è iniziato a parlare dei diritti degli animali, e sembrava possibile suggerire alla politica l’idea che, se il diritto vuole occuparsi di essi, pretendendo da loro comportamenti “civili”, allora deve assumersi l’onere di conoscerli a fondo, di capire quali siano le loro nature, le loro esigenze, il cambiamento delle loro abitudini, per prevenire fenomeni ai quali l’essere umano è impreparato a rispondere. Sembrava possibile suggerire che il diritto debba assumersi l’onere di creare per loro le stesse garanzie che per l’individuo umano prevedono regolari contraddittorio e processo, prima della pena (che solo per loro è quella di morte). Nella convinzione che garanzie obbligatorie possano offrire il tempo, agli esseri umani, di meditare sulle proprie responsabilità, sull’innocenza animale e sulla dignità animale, e siano in grado di meglio proteggere anche coloro che, come gli agricoltori, subiscono perdite dal discontrollo degli habitat.
Ci rimane una stella polare: quella Costituzione che, nemmeno un anno fa, vedeva opportunamente riformato il suo art. 9, insegnandoci un diverso punto di vista: quello dell’individuo che riconosce valore intrinseco all’ambiente
Oggi questo orizzonte appare offuscato: la politica, ancora una volta, ha creato il buio attraverso il diritto, ma soprattutto attraverso un’enfasi populista vuota di sostanziali apporti. Ci rimane una stella polare, come sempre: quella Costituzione che, nemmeno un anno fa, vedeva così opportunamente riformato il suo art. 9, insegnandoci un diverso punto di vista: non più quello dell’individuo che tutela l’ambiente in quanto paesaggio ameno, ma quello che riconosce valore intrinseco all’ambiente, alla biodiversità, agli ecosistemi, e agli animali. Da un lato, dunque, la fonte apicale dell’ordinamento che, con la sua profondità, consente a esso di essere inclusivo, dall’altro lato una torsione del diritto, armata e sanguinolenta, che guarda altrove.
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