Dei giorni immediatamente successivi all’11 settembre 1973 ho ricordi molto precisi. Una mia risposta aspra e sgarbata a mia madre che mi chiedeva perché mai spendessi tanto tempo a leggere tutto quel che potevo sul golpe cileno.
La pagina di un vecchio atlante per cercare di capire la geografia di un Paese tanto lontano e così verticale. La speranza di trovare, fra le righe di questo o di quell’articolo di giornale, un segnale anche minimo di una resistenza. Una fotografia diventata poi nota a tutto il mondo: quella che ritraeva Salvador Allende con un improbabile elmetto un po’ di sghimbescio, un maglione a losanghe e una mitraglietta in mano. L’immagine, mi sembrava, di chi non avrebbe mai voluto trovarsi in quella situazione ma, trovandocisi, aveva deciso di svolgere il proprio ruolo fino in fondo. Pochi mesi dopo, in una modesta abitazione nella periferia di Londra, avrei fatto una lunga intervista ad un profugo cileno. Un’intervista intrisa di tristezza e segnata dalla convinzione, basata sul nulla, che l’esilio sarebbe stato di breve durata e che il regime si sarebbe in breve tempo sgretolato. Sarebbe stato il mio primo pezzo per un quotidiano. E l’unico per molti anni a venire.
È del tutto naturale, quindi, che qualche sera fa mi sia ritrovato, con molti altri miei coetanei (con i quali condividevo, penso, solo l’età), a vedere Santiago, Italia, il recente lungometraggio di Nanni Moretti. “Un inno sobrio, emozionante e rigoroso al valore della memoria” ha scritto Walter Veltroni. Un film che ci ricorda cosa eravamo – generosi, solidali, appassionati – e cosa siamo diventati, sottolinea Mario Ricciardi. Insomma, un viaggio nel Cile di 45 anni fa per parlare dell’Italia di oggi. Per segnalarne l’involuzione politica, sociale e culturale; per sperare che, essendo stati altro, altro potremmo domani tornare ad essere.
Se fosse tutto qui il senso di Santiago, Italia, non ci sarebbe molto altro da aggiungere. Quale che sia il punto di vista di ognuno di noi, Mario Ricciardi e Walter Veltroni avrebbero detto tutto quel che c’era da dire. Senonché, non più tardi di tre anni fa, sono incappato nuovamente nel Cile di 45 anni fa, preparando, per il mio corso di Politica Economica, le lezioni sulla “Macroeconomia del populismo”, di cui il Cile di Salvador Allende è un esempio forse poco noto ma preclaro, come osservarono già nel 1991 Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards. Un esempio per quanto riguarda le condizioni iniziali: una diffusa insoddisfazione per le condizioni economiche e sociali del Paese, una profonda disuguaglianza nella distribuzione delle risorse, la convinzione che solo una strada radicalmente diversa possa consentire di superare le difficoltà e che questa strada non possa non prescindere dai vincoli macroeconomici propri delle politiche ortodosse. Un esempio per quanto riguarda le scelte di politica economica: l’uso ampio del bilancio pubblico e del debito pubblico a fini redistributivi, l’attitudine statalista e dirigista, la convinzione che i margini di profitto delle imprese siano comunque troppo ampi e frutto di posizioni di rendita, una progressiva chiusura rispetto al resto del mondo.
Ed il Cile degli anni 1970-1973 è un esempio anche per quanto riguarda l’evoluzione temporale delle strategie populiste. Una prima fase tutto sommato positiva, segnata da tassi di crescita significativi (il 9,0% nel 1971 rispetto al 2,1% del 1970) sospinti da una robusta espansione del disavanzo pubblico (pari nel 1971 al 10,7% rispetto al 2,7% del 1970) e da un incremento significativo dei salari reali (+16,9% nel 1971). “Era una festa continua”, come ricorda uno dei testimoni del lungometraggio di Moretti parlando del primo anno del governo di Unidad Popular. Una seconda fase in cui i vincoli macroeconomici cominciano a mordere. I settori produttivi entrano in una fase di stallo (il 1972 registra un tasso di crescita negativo e pari al -1,2%), l’inflazione supera il 200% e i salari reali recedono (-10% nel 1972), crollano le riserve in valuta. Infine, una terza fase in cui la situazione precipita. Il prodotto interno lordo crolla del 5,6%, l’inflazione supera il 600%, il disavanzo pubblico tocca il 25%, le riserve internazionali si azzerano o quasi. Il malcontento si fa diffuso e investe tutti gli strati della popolazione. Il rumore delle pentole vuote (il cacerolazo) riempie le strade di Santiago. Tutto sembra preferibile rispetto all’esistente. “Al passaggio degli aerei militari sulla Moneda, le finestre si aprivano e la gente applaudiva”, ricorda ancora uno dei protagonisti di quei giorni intervistato da Nanni Moretti.
Come si può facilmente intuire, anche sotto questo profilo la Santiago dei primi anni Settanta del secolo scorso avrebbe dunque molto da raccontare, mutatis mutandis, all’Italia di questi anni Dieci del nuovo secolo. Ma, visibilmente, non erano questi i ricordi di chi era con me al cinema qualche sera fa. Anche perché, a occhio, non sarebbe stato poi così difficile immaginare molti di loro battersi in questi ultimi anni contro la cosiddetta austerità, lottare per un’Europa diversa e libera da burocrati e tecnocrati, scendere in piazza per una politica economica alternativa, manifestare per una ripresa delle nazionalizzazioni, firmare appelli per la fine delle liberalizzazioni ed il ritorno ad una vera politica industriale. Fianco a fianco, molto probabilmente, con gli elettori di una delle forze politiche oggi in maggioranza.
Per usare le parole di Patricio Guzmàn, citato da Walter Veltroni, “chi non ha memoria non vive da nessuna parte”. È così. Ma peggio dell’assenza di memoria c’è forse solo una cosa: la memoria parziale, selettiva. Quella fatta solo di ciò che vogliamo e ci fa comodo ricordare. Perché ci è di conforto, ci consola e, così facendo, ci protegge, prima, e ci evita la fatica di pensare, poi.
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