Che cosa sappiamo noi dei rave? Che cosa sa chi nelle scorse settimane si è pronunciato sul caso di Modena e sulle misure adottate con urgenza dal governo italiano? Il rave non è opposizione: è un annuncio, un intervallo, uno spazio diverso da tanti altri che arriva a coinvolgere migliaia di persone. Non è, come spesso si pensa, il luogo del consumo di sostanze per eccellenza, essendo oggi il consumo di sostanze così pervasivo da non escludere alcun luogo.
Dal significato di “estasiarsi”, utilizzato dalla stampa conservatrice per la prima volta negli anni Cinquanta a proposito dei raduni bohémien dei “selvaggi di Soho”, è con la fine degli anni Ottanta – prima a Detroit e poi in Inghilterra – in piena emersione della musica elettronica e dell’hip hop, che il termine rave (o free-party) comincia ad assumere l’accezione a oggi più condivisa: una festa di alcuni giorni in luoghi dismessi e periferici, senza biglietto d’ingresso per i partecipanti, parzialmente organizzata, della quale viene fissato giorno e luogo da più persone, solitamente le crew di dj che si occupano della musica. Per consuetudine l’evento-raduno viene pubblicizzato senza particolari preavvisi e solo a ridosso del suo avvio (oggi utilizzando i canali social – soprattutto Telegram) per evitare di destare l’attenzione delle forze dell’ordine.
Se l’urgenza delle misure contenute in un Decreto, in attesa degli opportuni correttivi da parte delle Camere, è stata motivata dalla categoria di rischio, è utile riprendere per un attimo le parole di Ulrich Beck, secondo il quale «i rischi sono costruzioni e definizioni sociali sullo sfondo di corrispondenti rapporti di definizione […]. La loro “realtà” può essere drammatizzata o minimizzata, trasformata o semplicemente negata in conformità delle norme in base alle quali si decide del sapere o del non-sapere […], cioè [sono] risultati di messe in scena (più o meno riuscite)». Vogliamo sentirci sicuri? L’invito è quello di esorcizzare l’ampio spettro dell’incertezza con una rigida regolamentazione. Vogliamo sentirci felici? L’esortazione è quella di eliminare la fonte più perniciosa del suo avverso contrario, costruendo la certezza della necessità. Si fa prioritario, dunque, ristabilire l’ordine, ossia, riprendendo questa volta le parole di Zygmunt Bauman (La società dell’incertezza, Il Mulino, 1999, p. 103), «uno scenario in cui la percezione soggettiva si rifletta in modo rassicurante nella certezza». Appare evidente il richiamo al conformismo in luogo della libertà dai tormenti della scelta e della responsabilità (respondeo: dunque non colpa ma risposta).
Fabbriche, capannoni, ingresso libero, sostanze, alcol, musica meno commerciale e mainstream, abbigliamento libero, accettazione per tutti indipendentemente da età, sesso, provenienza. Rispetto alle prime esperienze, risalenti all’Inghilterra della seconda metà degli anni Ottanta, poco sembra essere cambiato se non nell’inevitabile evoluzione della musica (tekno o tekno music o free tekno), che fa storcere il naso ai puristi della prima ondata.
Eppure, nelle settimane scorse, molto si è discusso in proposito, continuando a ignorare in maniera bipartisan significati più profondi. Basterà una denuncia per “invasione per raduni pericolosi” a fare scattare importanti misure di prevenzione. Le modifiche al decreto legislativo del 30 ottobre 2022, sia pur prevedibili, non tarderanno ad arrivare, verosimilmente mettendo in “sicurezza” ampie fasce di popolazione che ai rave parties non hanno mai preso parte e che mai vi parteciperanno, continuando per contro a ignorare le ragioni e i significati dei diretti interessati. Chi sono questi ultimi? Proviamo a chiedercelo.
Sono giovani, studenti, lavoratori, disoccupati. Hanno come impronta principale l’avversione alla cultura conservatrice. Vivono l’appropriazione temporanea degli spazi come decompressione dal controllo sociale. Non sono così diversi da quanti pagavano sulla propria pelle i tagli al già modesto Welfare a stelle e strisce attuati dal governo Reagan. Così come non lo sono dai frequentatori della scena rave inglese della fine degli anni Ottanta, avversati, alla pari dei minatori e delle unions, dal governo di Margaret Thatcher, che impose la chiusura di pub e discoteche alle due del mattino con la precisa intenzione di porre un freno alla cultura dello “sballo”. In concreto, nel novembre del 1994, il Criminal Justice and Public Order Bill – luminescente già dal titolo l’intenzione – dichiarò illegali tutti i rave in tutte le loro forme, ricorrendo a pesantissime multe pecuniarie, con l’immediato risultato di far proliferare quelli illegali e di invogliare verso spazi chiusi.
Con la seconda Summer of Love, il Regno Unito si apriva a un nuovo modo di vivere la notte, inclusivo, senza differenze di classe. L’acid house – non politicizzata come lo era stata per contro la musica punk degli anni Settanta – con la diffusione delle droghe empatogene (vecchie e nuove) ha sdoganato la possibilità di una società fondata sull’uguaglianza, all inclusive almeno secondo il punto di vista dei giovani.
La risposta istituzionale di Stati Uniti e Regno Unito non ha accolto queste istanze, centralizzando invece gli aspetti più utili al facile consenso: pericolo pubblico, sicurezza e droga. Che cosa veramente spaventa di queste esperienze? Intanto l’incapacità di decodificare il fenomeno, se non attraverso la logora lente della cultura dello “sballo”.
La tragedia della diciannovesima edizione del LoveParade del 24 luglio 2010, svoltasi a Duisburg, in Germania, in cui morirono 21 persone e ne rimasero ferite altre 510, non può essere imputata alla tipologia del raduno. Ogni raduno (musicale, sportivo ecc.) è potenzialmente a rischio ma non per questo va vietato. Le droghe non appartengono all’aggregazione più di quanto non occupino individuali e collettive quotidianità. A tale proposito, conviene ricordare che le sostanze stupefacenti, nel nostro ordinamento, assumono rilevo penale in taluni casi tra i quali la cessione, ossia lo spaccio – art. 73 DPR 309/90 – e a prescindere se lo stesso sia fatto all’aperto, in un capannone abbandonato, in un locale frequentato da persone danarose o in una casa privata. Chi viene trovato con un quantitativo minimo di droga, compatibile con un consumo personale, non subisce il procedimento penale, ovunque si trovi, commettendo esclusivamente un illecito amministrativo – art. 75 del DPR 309/90.
Nell’esperienza rave assumere droghe resta una scelta come accade anche altrove, con la possibilità – che altre realtà del divertimento non contemplano – di creare aree safe dove è possibile parlare di prevenzione e di riduzione del danno, “accessori” quasi completamente ignorati dall’impegno pubblico – e dal privato sociale – a proposito di consumo e dipendenza da sostanze. L’assenza di superalcolici per molte di queste esperienze rientra proprio in questa chiave di lettura.
La partecipazione, l’aggregazione, l’identificazione, la condivisione, la fusione sono percepiti come socialmente pericolosi quando non si è disponibili all’approfondimento, al confronto, alla comprensione. Il rave è riparo dalla spettacolarizzazione delle atmosfere delle discoteche; è fuga dal controllo, dalla ciclicità giorno/notte, da quel centro che per essere tale ha bisogno delle periferie. Ė la centralizzazione della periferia in una nuova mappatura del territorio socio-culturale. Ė un non-luogo per tutti gli altri, ma è profondamente luogo per i partecipanti. Ė il posto di una rivoluzione culturale estrema ma pacifica dove il sistema non viene combattuto ma ignorato, escluso dagli esclusi.
Coloro contro i quali la New Right di matrice anglosassone scagliò, tra la fine anni Ottanta e Novanta, una sorta di campagna moralizzatrice erano i figli della classe operaia e dei ceti medio-bassi, braccati dalla precarietà e dalla disoccupazione. Oggi come allora il rave è uno spazio di appartenenza fuori da una realtà dalle scarse possibilità, dall’omologazione e dalla cultura di massa. Se il lavoro non c’è, allora ci si chiude nelle fabbriche dismesse a iper-produrre, “lavorando” giorno e notte, senza riposo, come in trance, immersi nel contenitore per ricordarne il contenuto. Nulla di tutto ciò emerge nel dibattito pubblico e politico.
Lontani da profitto, produzione, competitività, pagano la colpa di ricordare alla minoranza che decide che esiste un pensiero che non è unico e che rivendica il proprio diritto a esistere
Le nostre paure e le aspettative di un futuro sempre più incerto ci inducono a cercare conferme alla nostra sensazione di pericolo. A cercare e trovare, impropriamente, colpevoli del nostro stato di insicurezza. Lo strumento di quanti vivono la condizione dell’escluso non è forse ribadire l’esclusione, come se non fosse una condanna ma una scelta, con atteggiamenti, norme e nella fattispecie musica, ritrovi e droghe proprie? L’inosservanza delle regole non è una sfida al potere costituito e sordo al disagio?
Il senso perduto della comunità e della sua identità non si riafferma con i muri, i respingimenti, gli atteggiamenti secessionisti, segregazionisti o xenofobi, così come la causa profonda del malessere generale non è da rinvenire nello stile di vita degli esclusi dal gran ballo del consumo, ma forse più dallo stile di vita di una minoranza che decide, influenzando il terreno sociale ed economico.
I margini sono utili affinché il centro possa preservarsi con la più o meno inconscia inclinazione a fare ricadere la causa dell’esclusione degli esclusi sugli esclusi stessi, rei di non aver fatto abbastanza, di non voler fare abbastanza. Lontani da profitto, produzione, competitività, pagano la colpa di ricordare alla minoranza che decide che esiste un pensiero che non è unico e che rivendica il proprio diritto a esistere.
Riusciremo ad ascoltare, decodificare, interpretare queste istanze? Forse proprio domandoci chi sono i frequentatori dei rave parties, al di là degli stereotipi, potremmo capire qualcosa di più di noi stessi, proprio noi che a un rave non abbiamo mai partecipato. Sempre che, in fondo, la nostra volontà non sia quella di colpire il contenitore (il rave) per colpire in realtà il contenuto (chi i rave li anima e li frequenta).
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