La grande confusione di questi giorni evidenzia uno dei tratti più profondi e duraturi del carattere italiano: patrioti nelle emergenze, particolaristi davanti al primo spiraglio di luce. Per una classe politica che non sembra aver perso l’abitudine di fare il tifo su tutto, si prospetta all’orizzonte un nuovo bipolarismo tra i partigiani della chiusura e quelli dell’apertura. Come di consueto, i due poli si definiscono sulla base delle accuse reciproche: gli «aperturisti» sono schiavi del mercato e antepongono i soldi alla vita, i «chiusuristi» sono pavidi e incapaci di affrontare il futuro.
Checché se ne dica, in questi tempi terribili gli italiani hanno dato una prova straordinaria di maturità, solidarietà, capacità di sacrificio, senso di responsabilità individuale e collettiva. Anche le iniziali ironie internazionali sul Paese-lazzaretto sono state presto sopraffatte dalle sirene delle ambulanze risuonate giorno e notte in tutte le capitali del mondo. Per questo i cittadini, reduci da una prova eroica, non meritano le polemiche che continuano a diffondersi tra le varie consorterie partitiche e regionaliste in cui la nostra politica è solita dividersi.
È naturale chiedersi perché dopo oltre due mesi dalla prima diagnosi circolino ancora numeri così aleatori sulla diffusione del contagio, e come mai la radiografia italiana della situazione appaia tanto più sfuocata rispetto a quella tedesca È evidente che gli errori non sono mancati. Alcuni hanno avuto un costo tremendo in termini di vite umane, altri gravano come macigni sul futuro prossimo: in particolare, è naturale chiedersi perché dopo oltre due mesi dalla prima diagnosi circolino ancora numeri così aleatori sulla diffusione del contagio, e come mai la radiografia italiana della situazione appaia tanto più sfuocata rispetto a quella tedesca. Entrano in gioco cecità di lunga durata, come quei tagli alla sanità e alla ricerca che fino a due mesi fa sembravano fissazioni da idealisti romantici, mentre oggi sono la diga che ci difende dalla catastrofe. Ma non sono purtroppo difetti che possiamo correggere dall’oggi al domani, quindi per il momento ci accontenteremmo di una risposta più sobria e concreta da parte delle classi dirigenti, all’altezza dei sacrifici compiuti dai cittadini.
Nell’ora più buia, l’autorità politica ha agito in base al principio più classico dello stato di eccezione, sospendendo le libertà individuali in nome dei diritti superiori alla vita e a alla salute. Per quanto invasive siano state le limitazioni, qualunque valutazione realista della gravità della situazione impediva di fare altrimenti. Superata la prima fase dell’emergenza, serve però una netta presa di posizione per ristabilire la scala di priorità, ribadendo che le limitazioni provvisorie hanno l’obiettivo di restaurare il prima possibile la massima libertà individuale compatibile con le misure di prevenzione. L’imperativo categorico del liberalismo afferma che la libertà di ciascuno finisce laddove inizia a limitare la libertà del prossimo; nel prossimo futuro, dovremo forse rimodularlo affermando che la mia libertà di movimento finisce dove inizia la tua libertà dal contagio – ma sempre di imperativo assoluto dovrà trattarsi. Questo dovrà essere chiarissimo in un Paese in cui gli anticorpi liberali non hanno mai raggiunto una diffusione tale da garantire l’immunità di gregge dal contagio autoritario. È un brutto segnale il gran numero di sanzioni totalmente sproporzionate comminate a liberi cittadini. Per quanto sia ormai evidente che gran parte dei contagi più recenti siano dovuti principalmente alla condivisione di spazi domestici, dovuti quindi all’inefficienza delle autorità nel diagnosticare la malattia e garantire spazi adeguati per la quarantena, si è diffusa una sorta di criminalizzazione del passante. Simili colpevolizzazioni hanno radici antropologiche profonde nella pericolosa convinzione che, in tempi di crisi, la libertà sia tutto sommato un privilegio immeritato da non ostentare. Per questo deve esserci grande chiarezza di obiettivi: servono strumenti più efficaci non per contenere la popolazione, ma per permetterle di circolare in sicurezza tornando a occupare gli spazi pubblici, seppure alla giusta distanza. Il compito del governo non è quello di promettere aiuti economici a pioggia (in merito ai quali, se fossimo realisti e ci basassimo sul passato recente, dovremmo ridimensionare subito le aspettative) ma di creare una cornice istituzionale che consenta ai cittadini di tornare a produrre ricchezza in sicurezza.
Le limitazioni provvisorie hanno l’obiettivo di restaurare il prima possibile la massima libertà individuale compatibile con le misure di prevenzioneLe autorità nazionali e locali dovranno resistere alla tentazione, così forte in Italia, di sbrigliare la fantasia per trovare nuovi modi di sanzionare la distanza di un metro e settantanove centimetri tra due postazioni di lavoro, o magari l’occupazione di una panchina per oltre quattro minuti e mezzo. Non è facile in un Paese che ha già manifestato in tante occasioni la sua tendenza all’ipertrofia normativa: già nelle scorse settimane è stato spesso difficile sfuggire all’impressione che stesse prevalendo un modello punitivo e dogmatico di contenimento rispetto a un modello illuminista di consapevolezza e indagine epidemiologica. La chiarezza di obiettivi è tanto più importante se non vogliamo che si diffonda una concezione distorta e superstiziosa del contagio. Per promuovere una consapevolezza fondata sul buon senso, deve diventare di dominio comune il concetto che le attività distanziate all’aperto sono infinitamente meno insidiose per sé e per gli altri degli assembramenti di ogni genere. In un Paese in cui fosse uniformemente scoraggiato qualsiasi spostamento, il cittadino medio avrà difficoltà a comprendere la differenza tra il rischio di una scampagnata solitaria e quello di un affollato centro commerciale. Senza una sensibilizzazione adeguata sulle modalità del contagio, circoleranno migliaia di inconsapevoli mine vaganti. La responsabilizzazione collettiva è resa più importante dal fatto che gran parte dei modelli predittivi si sono mostrati totalmente inaffidabili uno dopo l’altro, caduti come birilli ad ogni riscontro con i fatti. Fin dal principio uno dei due – non duecento – criteri con cui a febbraio dovevano essere identificati i casi sospetti, ovvero il contatto diretto con persone provenienti dalla Cina, si è rivelato inconsistente nel 99,99% dei casi accertati.
La domanda è: cosa vogliamo imparare da questa lezione? Ci porterà soltanto a indignarci contro gli errori passati del governo? Oppure ci insegnerà a esercitare d’ora in poi maggiore senso critico nell’interpretare i regolamenti? Sanzionare senza discernimento chiunque esca di casa evidenzia lo stesso dogmatismo irragionevole, dovuto al medesimo atteggiamento ciecamente burocratico e procedurale. Così come non si possono comprimere all’infinito i cittadini nel chiuso delle loro case, non si può pretendere che siano «gli esperti» a decidere sulla riapertura. Sarebbe un clamoroso errore di comprensione del corretto rapporto tra politica e scienza. Karl Popper ci ha ammonito che gli scienziati non hanno nessuna certezza da offrirci, ma solo – quando va bene – modelli plausibili di descrizione della realtà. Quindi, piuttosto che delegare ogni scelta, i politici si facciano carico delle responsabilità a cui li chiama il ruolo, dopo aver messo gli esperti in condizione di fornire loro la base informativa necessaria. La delega cieca agli scienziati si scontra peraltro con un altro dato di fatto, cioè la triste constatazione che gli strumenti di cui disponiamo sono così limitati da non averci consentito di fare molti passi avanti rispetto alle misure di quarantena applicate 2.450 anni fa ad Atene o nell’Europa medioevale ai tempi della Peste nera. Sia i critici che gli apologeti dovranno ridimensionare la famigerata tesi del «dominio della tecnica», uno dei più diffusi tormentoni culturali degli ultimi decenni: non facciamoci illusioni, ora sappiamo che il timone è ancora saldamente in mano a mammiferi fallibili e mortali.
Il compito della politica è ancora e sempre quello di districarsi in mezzo al pluralismo dei valori, accettando il fatto che non possiamo perseguire ossessivamente la via della chiusura o quella dell’apertura indiscriminata. Ci sarà da negoziare compromessi, cercare equilibri instabili, elaborare soluzioni provvisorie fondate scientificamente ma perfettibili. Le premesse in particolare andranno poste con grande onestà intellettuale: non disponiamo nemmeno lontanamente delle informazioni necessarie per deliberare in sicurezza, ma non possiamo permetterci i tempi lunghissimi che servirebbero per ottenerle, perché la ripartenza è una necessità assoluta per sopravvivere.
Siamo sul sottile lembo di terra compreso tra due mari ignoti e minacciosi, non è il caso di fingere di conoscere la strada. Servirà tanta umiltà per ammettere che ogni apertura dovrà essere prudentissima, scettica, ipotetica, probabilistica, e soprattutto che dovrà sorreggersi sul senso di responsabilità di ciascuno, e non sui miracoli di uno Stato che vede e provvede. Ci aspetta una lunga traversata del deserto e dovremo dosare le energie: meglio apprestarci a farlo come cittadini liberi e consapevoli che come sudditi vessati e irresponsabili.
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