Questo articolo fa parte dello speciale Ritorno a scuola
Ho deciso che nella mia vita avrei voluto insegnare quando ho realizzato che questo lavoro mi avrebbe dato l’occasione, e il privilegio, di raccontare il mondo e il tentativo di comprenderlo a gruppi di studenti. Ragazze e ragazzi con cui avrei instaurato una relazione, condiviso dialoghi e intrecciato esperienze. Allora avevo poco più di vent’anni e avevo appena letto di Azar Nafisi e delle lezioni che teneva nella sua casa a Teheran, il giovedì mattina, durante le quali accoglieva in soggiorno giovani studentesse appassionate di letteratura, commentando con loro i classici a partire dal proprio vissuto. Erano lezioni di libertà. Era uno spazio per riflettere sulla propria storia e per immaginare il futuro, individuale e collettivo. Negli anni, infatti, ho imparato che ogni classe che si incontra è un universo a sé, una comunità, nella quale si ritrovano molte delle dinamiche che poi caratterizzano il nostro essere in società anche «al di fuori» della scuola.
Per questo motivo, mi è sempre parso abbastanza naturale vedere nell’insegnamento un qualcosa che avesse a che fare con il tentativo di cambiare la realtà, partendo dal basso. La classe è uno spazio di confronto e di dialogo, è uno dei luoghi dove gli studenti prendono posizione su certi aspetti della società, della vita o dell’essere dell’uomo, dove si confrontano in un contesto ancora in parte protetto, per acquisire gli strumenti intellettuali e pratici che poi serviranno loro a fare lo stesso nel corso degli studi, della vita lavorativa, della propria storia personale e nella società, per l’appunto. Nel corso della mia esperienza ho visto alcuni studenti sin da subito forti delle proprie idee, altri disposti a modificarle dopo averle sottoposte a critica, altri ancora convinti all’inizio di avere poco o nulla da dire e che in seguito, trovato il coraggio, hanno esposto alla classe punti di vista di grande interesse.
A scuola occorre lavorare sulla consapevolezza: lo studente deve imparare a concepire se stesso come un soggetto che si apre al mondo, in un percorso di crescita che lo deve portare a sentirsi individuo attivo, agente nel reale. Un’azione che passa attraverso il sentiero della conoscenza, del sapere e della cultura. In tutto questo, credo che il lavoro di noi insegnanti stia nel «lasciarli essere», pur rimanendo loro accanto. Abbiamo il compito di far riconoscere ai ragazzi il valore dell’essere lì, in classe, pronti a lasciarsi appassionare, a far sorgere dubbi e a giocare con le conoscenze e le discipline, smontandole, creando collegamenti inediti, entrando nelle vite degli autori e provando curiosità nei confronti degli enigmi che il mondo dischiude. In questo, come insegnanti, abbiamo una responsabilità enorme.
A scuola occorre lavorare sulla consapevolezza: lo studente deve imparare a concepire se stesso come un soggetto che si apre al mondo, in un percorso di crescita che lo deve portare a sentirsi individuo attivo, agente nel reale
George Steiner, nella sua opera La lezione dei maestri, dedica alcune pagine al filosofo Alain, il cui vero nome era Émile-Auguste Chartier, convinto che si tratti di una delle figure più interessanti del primo Novecento francese, per la sua attitudine all’insegnamento che si intreccia alla sua vocazione pacifista e antifascista. Originario della Normandia, Alain si dedicherà all’insegnamento nelle scuole secondarie francesi, preferendo l’insegnamento liceale a quello universitario. Una sua fotografia in bianco e nero lo ritrae in piedi, tra i banchi, con un biglietto stretto tra le dita. Dietro di lui, una lavagna di ardesia con alcune scritte tracciate col gesso. Gli occhi sono rivolti a quel pezzo di carta, in aula si sta svolgendo una lezione: il professore del liceo parigino Henry IV è stato immortalato nell’atto di leggere qualcosa ai suoi studenti che rimangono immobili ad ascoltarlo, la penna appoggiata sul foglio. Steiner scrive di lui che sapeva «incantare». Aveva una saggezza pratica, acquisita nel corso di una vita in cui il pensiero e la ricerca si erano incarnati nelle pieghe del reale e avevano stabilito con esso un legame indissolubile. Le sue aule erano affollate anche di giovani universitari e uditori esterni, curiosi di assistere alle sue spiegazioni.
Ma ecco il punto: Alain era convinto che la scuola fosse il luogo per eccellenza in cui formare cittadini consapevoli e attenti alla sfera pubblica. Invitava gli studenti a diffidare del successo e mal sopportava l’ostentazione; sottolineava, al contrario, l’importanza di «leggere e rileggere i maestri» della tradizione filosofica e di recuperare il valore della letteratura. «Ciascuno di questi impegni filosofici, didattici ed estetici aspira a un fine comune: l’istituzione e il mantenimento di una société libre», commenta Steiner in quelle pagine. Per il professore parigino, la libertà e l’emancipazione umana erano strettamente legate al pensiero e all’esercizio vivace e profondo di esso. E quale luogo migliore per coltivarlo di un’aula scolastica?
Se vogliamo costruire una società libera, egualitaria e tollerante, la scuola deve fare la sua parte. È fuori discussione che non sia un compito semplice, soprattutto in una fase come quella attuale (e che no, non coincide esclusivamente con l’arrivo della Dad) in cui le incombenze amministrative spesso sottraggono ai docenti energie e lavoro che andrebbero piuttosto investiti nella preparazione delle lezioni. L’approfondimento, la discussione e il dibattito, infatti, richiedono tempo e allenamento. Di conseguenza, se il tempo da dedicare alla didattica vera e propria viene meno, può capitare che questi aspetti siano i primi a essere considerati sacrificabili. Scadenze da rispettare, documenti e moduli da compilare costringono i docenti a pensare spesso più alla forma dell’insegnamento che alla sua sostanza. Ma c’è bisogno della sostanza per far nascere le idee. Pier Paolo Pasolini, in uno degli articoli dedicati alla sua esperienza di maestro raccolti sotto il titolo Dal diario di un insegnante e pubblicati in Un Paese di temporali e di primule, sottolinea che l’obiettivo di una vera formazione è la caduta degli idoli, l’infrangersi delle verità assunte in modo acritico: bisogna condurre gli studenti «in un clima di scandalo e incertezza», affinché ognuno sia stimolato alla ricerca del proprio punto di vista sulla realtà.
Insegnare nella società di oggi, in cui la vita degli adolescenti è scandita dalla frenesia, da ritmi incalzanti e da stimoli continui, dev’essere, infine, un modo per trasmettere agli studenti il senso della fatica e della lentezza
Insegnare nella società di oggi, in cui la vita degli adolescenti è scandita dalla frenesia, da ritmi incalzanti e da stimoli continui, dev’essere, infine, un modo per trasmettere agli studenti il senso della fatica e della lentezza. Un problema di natura scientifica, così come una traduzione o la lettura di un testo richiedono un esercizio di concentrazione e pazienza, cui molto spesso ragazze e ragazzi non sono più abituati. Queste generazioni hanno il vantaggio di avere tutto a portata di smartphone: la risposta a tante domande è lì dentro, così come la soluzione a tanti compiti assegnati. Lo svantaggio, però, è che sono più inclini alla distrazione, alla noia e alla delusione di fronte a un risultato che non corrisponda alle loro aspettative. Bisogna allora insistere sulla progettualità, sulla responsabilità nel portare avanti un impegno a lungo termine, sull’osservazione sincera e disincantata del reale.
Inoltre, la scuola ha il compito di aiutarli a volgere lo sguardo verso interrogativi per i quali non è facile trovare risposta nella rete: le inquietudini e i «perché» che accompagnano ogni individuo nel suo percorso di crescita. Educare all’attesa, così come pazientare tra le parole e i loro significati è una pratica che ha ricadute anche nella sfera politica e nel rapporto con gli altri: il cambiamento e la riflessione richiedono tempo e molto spesso i risultati non sono verificabili nell’immediato. È sempre Pasolini a esporre la sua idea per cui la scuola troppo spesso cade nel rischio della semplificazione, quando invece gli studenti dovrebbero essere trattati da adulti e condotti fuori dal loro mondo per conoscere qualcosa di inedito. «Bisogna provocare la curiosità» e, ancora, occorre «svegliare nell’alunno la coscienza dell’intelligenza», certi che «il difficile (che poi è il nuovo) appassiona sempre i ragazzi».
Ricordando una lezione di letteratura a partire da una poesia di Ungaretti, Pasolini paragona il «batticuore» suscitato negli alunni nel trovarsi ad analizzare e comprendere un testo letterario complesso all’atto di scostare i fili d’erba in un prato per osservare meglio un insetto. Conoscere richiede delicatezza e impegno, quindi genera passione e stupore. Elementi indispensabili anche nell’esercizio della cittadinanza.
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