Per chi guardi il mondo, diciamo, moderatamente da sinistra, il governo Draghi non è il massimo desiderabile. Ognuno ha le sue opinioni. Per chi scrive è un governo che lascia a desiderare su molti fronti: lavoro, sanità, ambiente, scuola, Mezzogiorno, tanto per citarne alcuni. In molte situazioni – l’ultima quella dei passaporti sanitari – ha mostrato gravi incertezze. Vi sono nodi che fatica a sciogliere. Eppure, niente autorizza a liquidarlo sbrigativamente come il governo di Confindustria e del capitalismo finanziario, di cui il presidente del Consiglio sarebbe simpatetico portavoce. È un governo di compromesso e i compromessi sono compromessi: più spesso mediocri che brillanti.
La prima cosa di cui tener conto nel giudicarlo, almeno fino ad oggi, è la mefitica atmosfera politica di cui è frutto. Dipendente a sua volta da due fattori. Il primo è la frammentazione del sistema dei partiti, il secondo una legge elettorale sciagurata, che distorce la volontà degli elettori, ma soprattutto incombe sulle prossime elezioni. Se qualche coalizione ottenesse – ed è candidata una destra democraticamente molto dubbia – il 40% dei consensi, che nessuno ha ottenuto nel 2018, il governo sarà consegnato a una maggioranza pure in grado di cambiare a suo piacere la Costituzione. Quanto al sistema dei partiti è frammentato non già nel senso che vi sono troppi partiti: ormai siamo guariti dal mito dei due soli partiti. Ma nel senso che i partiti attuali sono frammentati al loro interno e instabili. Nella storia dei partiti, le divisioni interne erano la regola. Ma i grandi partiti erano capaci di regolarle senza divisioni distruttive. Fu una grave debolezza del socialismo italiano la propensione alle scissioni. Se non altro, però, i socialisti, si dividevano per serissime questioni politiche. La novità che ha portato la democrazia italiana dagli anni Novanta è l’estremo personalismo che motiva le scissioni. Offrendo la prova dell’inconsistenza ideale, progettuale, politica delle formazioni politiche presenti in Parlamento nell’ultimo trentennio.
È pertanto diventato impossibile costituire alleanze di governo minimamente stabili ed efficaci. Il vecchio regime proporzionale era stato dismesso perché incoraggiava la frammentazione e destabilizzava l’azione di governo. Da allora, la legge elettorale è stata riscritta più volte, anche in termini costituzionalmente discutibili, ma la stabilità è rimasta un miraggio: quando c’è stata, i governi stabili hanno fatto anzi più danni dei governi instabili della stagione precedente. In questa legislatura si sono succedute due maggioranze politicamente molto fragili, la seconda in aperta contraddizione con la prima, esposte a tutti i colpi di vento, capricci interni e poco concludenti. Il Conte II ha dato maggior prova di coerenza del governo Conte I, salvo incontrare una durissima e spregiudicata avversione non solo dai partiti d’opposizione, ma dalle viscere stesse della maggioranza, oltre che dalla grande stampa e da alcuni importanti interessi organizzati. La situazione drammatica, suscitata dal Covid, ha visto il governo sottoposto alle resistenze più sleali, finanche dalle regioni, alcune tra le quali, a costo di mettere a rischio la vita di molti dei loro abitanti, hanno spesso sabotato l’azione dell’esecutivo.
Rinunciamo a ogni commento sulla caduta del governo Conte II. Allo stato dei fatti, era inevitabile: opposizioni a parte, interne ed esterne, si fondava su due debolezze, che insieme non costituivano una forza. Questo non esclude più oscuri moventi per farlo cadere: primo tra tutti l’impiego delle enormi risorse del Pnnr. Comunque sia, quand’è caduto, il capo dello Stato ha ritenuto, anche in ragione delle circostanze, di chiedere ai partiti uno sforzo di collaborazione e di affidare la guida del governo a una figura di indiscussa autorevolezza internazionale come Mario Draghi, finora di continuo invocata come l’unica in grado di cavare il Paese dai guai.
La scelta di Draghi, e il coro d’invocazioni che l’ha propiziata, fa comunque riflettere. Non sulle qualità della persona, quanto sulla ricorrente invocazione dell’uomo della provvidenza. E un’ennesima riprova, ove ve ne fosse bisogno, della profonda fragilità della democrazia italiana. Mario Draghi ha fatto la sua parte. Ha assemblato una compagine ministeriale, com’era prevedibile, di compromesso. A conti fatti, le forze politiche sono rappresentate per quel che sono: questo è il vino che le botti dei partiti riescono a dare. Con questa compagine, Draghi s’è messo all’opera per contrastare la pandemia e affrontare la gravissima emergenza economica.
La scelta di Draghi, e il coro d’invocazioni che l’ha propiziata, deve far riflettere. Non sulle qualità della persona, quanto sulla ricorrente invocazione dell’uomo della provvidenza
Già nel discorso di presentazione alle Camere, il presidente del Consiglio ha scelto il registro del realismo e della buona amministrazione. Non ha sfoderato un grande e ambizioso progetto di ripartenza. Il Paese è fermo dagli anni Ottanta. Ha avuto stagioni più propizie, come nella seconda metà degli anni Novanta, ma è rimasto molto indietro rispetto ai partners europei. La questione dell’occupazione si aggrava da anni, come quella del Mezzogiorno. Il governo Draghi non ha offerto alcuna promettente rottura di continuità, né pare offrirla su altre questioni spinose: scuola, sanità, pubblica amministrazione, energia, territorio, trasporti, emergenza climatica. Ogni tanto il capo del governo ha inviato qualche messaggio più incisivo, sul reddito di cittadinanza e da ultimo sul clima, ma l’azione di governo è di là da venire.
Questo non vuol dire che il governo non abbia ottenuto risultati. Intanto, ha seguitato nella strategia di contrasto della pandemia. Non sarà l’ideale, ma l’Italia è in linea con gli altri Paesi europei. L’economia ha ripreso a girare di buona lena. Il Pnnr avrebbe potuto essere più ambizioso, la riforma della giustizia non è perfetta, ma qualche miglioramento s’intravede. La Pubblica amministrazione è in condizioni catastrofiche, ma le è stato applicato qualche pannicello caldo. Insomma, la bottiglia non è piena, non lo è forse nemmeno a metà, ma almeno non è vuota.
Tutt’altro che disprezzabile è invece il progresso che si registra sul versante delle relazioni politiche. Le regioni hanno smesso di sabotare. Sono vittima semmai delle manchevolezze delle loro dirigenze locali, che solleciterebbero un serio ripensamento del regionalismo. Sono state altresì disinnescati certi eccessi di personalismo. Sono cessate le manovre di Renzi. Salvini è alle corde. C’è l’opposizione di Meloni, ma, avendo seminato per decenni populismo a piene mani, era inevitabile. La stessa stampa, che non dava tregua al governo Conte II, ha perso mordente.
Non sono idilliaci, è vero, i rapporti tra i ministri. L’azione di Giorgetti per assecondare Confindustria e la galassia delle imprese settentrionali contrasta qualsiasi misura di respiro a favore del lavoro e del Mezzogiorno. Bisogna però chiedersi se il problema non stia in lui, che rappresenta la sua constituency, quanto nei soci di maggioranza. La politica è un fatto relazionale e i fatti lo dimostrano. Se cambiano il contesto, gli alleati e gli avversari, le forze politiche si adattano. La Lega, alla prova del governo, si è divisa. Manca, per contro, all’appello la fondamentale forza di centrosinistra, consegnata a una leadership ectoplasmatica, che anziché dedicarsi alla questione chiave per qualsiasi sinistra che si rispetti, cioè l’occupazione, e magari guardare avanti sui temi dell’ambiente dell’energia e del Mezzogiorno, si limita a esibire i suoi meriti di partito responsabile, il più draghiano di tutti. In compenso, la riflessione sul partito langue, la Calabria è abbandonata alle destre e a Torino delle primarie a dir poco esangui hanno partorito un candidato sindaco manchevole d’idee per una città in crisi e di un minimo di appeal. L’alleanza coi 5 Stelle, plausibile anzitutto per ragioni di forza, non è la panacea per tutti i mali. È innegabile, il Pd proviene da un periodo difficile. Probabilmente, era sbagliato il progetto, sempre che un progetto ci fosse, su cui è stato costruito. Ma la sua persistente inconsistenza è un problema gravissimo.
Questa complicata vicenda mostra però qualcos’altro. La democrazia non è il regno delle fate. Vive in un mondo contraddittorio e non può coltivare l’illusione che basti incoronare qualcuno perché governi
Questa complicata vicenda mostra però qualcos’altro. La democrazia non è il regno delle fate. Vive in un mondo contraddittorio e non può coltivare l’illusione che basti incoronare qualcuno perché governi. Quella che è definita la democrazia maggioritaria (oggi fondata sul principio per cui the winner take all) si è dimostrata un’invenzione che sta dividendo le società democratiche e il loro governo. In passato, la democrazia maggioritaria induceva le maggioranze a rispettare le opposizioni e il loro elettorato. L’interpretazione estrema che ne viene data ultimamente è tutt’altra. L’unico grande paese in Europa che se la passi un po’ meglio è la Germania, dove si è sedimentata da più di mezzo secolo una robusta cultura dell’accordo, della continuità, della stabilità. Nessuno si scandalizza per i governi di grande coalizione. Ma la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna conoscono tutte gravi incertezze. Ora, presto o tardi, il governo Draghi finirà. È ingiusto, e persino offensivo, chiedere a un presidente esemplare come Mattarella di accettare una riconferma per metterci una toppa: sarebbe solo un’altra prova dell’inadeguatezza del nostro regime democratico. È ora piuttosto che le forze politiche accettino l’idea che è ora di finirla coi personalismi e le guerre per bande e che s’inventino forme di collaborazione permanenti, pur nel rispetto della loro diversità. Saranno governi di compromesso, molto imperfetti, ma proprio alla prova delle misure da prendere è possibile che i partiti imparino a ragionare con più realismo e meno pregiudizi.
La politica democratica vive nei tempi brevi delle scadenze elettorali. Li ha drammaticamente raccorciati la smaterializzazione dei partiti e la labilità degli elettorati, nonché l’assedio dei media alle dirigenze elettive: contare sulla loro autodisciplina è un’illusione
La democrazia rappresentativa è stata inventata per smussare i conflitti, non per acuirli. La lezione del passato è che i partiti intrattenevano tra loro rapporti più civili. L’opposizione di Sua Maestà era leale perché era leale verso di essa la maggioranza. La politica democratica vive nei tempi brevi delle scadenze elettorali. Li ha drammaticamente raccorciati la smaterializzazione dei partiti e la labilità degli elettorati, nonché l’assedio dei media alle dirigenze elettive: contare sulla loro autodisciplina è un’illusione. Lo Stato liberale ottocentesco si era difeso dall’elettoralismo professionalizzando gli apparati burocratici. Per Weber, ossessionato dalla razionalità burocratica, la politica elettiva era un antidoto contro questi ultimi. Non si accorse che i due principi si potevano utilmente bilanciare: se ne accorse invece Schumpeter. È alfine sopraggiunto il New public management con la promessa di sostituire alla razionalità burocratica la più efficiente e meno costosa razionalità del mercato. O la sua simulazione. Non sarà stato un terribile errore? Il gioco delle interdipendenze e dei bilanciamenti è delicato: lo Stato democratico, fatto di burocrazie razionali e di dirigenze elettive che si bilanciavano tra loro, bilanciava a sua volta il mercato. Era un motivo di bilanciamento anche il mondo del lavoro organizzato. Tutti questi bilanciamenti si sono ora dissolti squassando un equilibrio senza ricostituirne un altro. È ora di ricostituirlo in qualche modo.
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