Se teniamo da parte i militanti della «libertà» che manifestano contro la «dittatura sanitaria» e consideriamo gli interventi pubblici contro il certificato verde di alcune figure, non tutte di secondo piano, della cultura italiana, viene in mente il celebre attacco del Contre Sainte-Beuve di Proust: «Ogni giorno che passa do meno importanza all’intelligenza». Di più: quando il molto sapere e il profondo pensare, per amore di sé stessi, perdono il contatto con la realtà, l’intelligenza fa danni.

Non so quanto contino le esperienze personali, recenti o remote, nel determinare certi orientamenti – forse più di quanto si creda. È un fatto tuttavia che la diffidenza nei confronti della comunità scientifica, divisa, come è naturale, su molti aspetti collaterali del tema, ma unanime nel considerare il vaccino l’unica difesa valida contro la pandemia; una certa disinvoltura nel manipolare i dati pari solo a quella con cui si accusano i «poteri» di farlo sistematicamente; il dispetto supponente con cui si rubrica la scelta della stragrande maggioranza dei vaccinati a manifestazione di servitù bovina al pensiero unico; tutto questo, dico, ha davvero poco che fare con l’esercizio di una critica seria, quale la comunità si attenderebbe dagli intellettuali.

Su queste posizioni, cui non difetta il compiacimento di sapersi minoritari e il gusto di presentarsi come voci in deserto, si sono attestati soprattutto alcuni che interpretano i dispositivi messi in atto per contrastare il Covid e relative conseguenze sul funzionamento delle istituzioni come indizi di pericolo per la democrazia. Il protrarsi dello stato d’emergenza, l’utilizzo della decretazione del presidente del Consiglio, le misure coattive di prevenzione del contagio, le limitazioni alla libertà personale per arrestare la diffusione del virus, la stessa convergenza delle forze politiche in un dicastero di salvezza nazionale, un certo unanimismo dei media a favore del governo, il carisma di Draghi e le percentuali impressionanti del suo gradimento presso l’opinione pubblica, l'irrilevanza crescente del Parlamento nel controllo dell’esecutivo e nella determinazione dell’indirizzo politico: questi sarebbero i segni della deriva illiberale verso cui il Paese sta scivolando, nell’inconsapevolezza dei più.

La pandemia avrebbe insomma accelerato, in virtù dell’emergenza, quel processo di crisi di sistema che la democrazia sta vivendo su scala globale, spalancando la strada a soluzioni morbidamente (per ora) autoritarie

La pandemia avrebbe insomma accelerato, in virtù dell’emergenza, quel processo di crisi di sistema che la democrazia sta vivendo su scala globale, spalancando la strada a soluzioni morbidamente (per ora) autoritarie – e qui non mancano, fra i più apocalittici di questi profeti, evocazioni fantasiose di un futuro, già embrionalmente presente, di un’Italia «cinese», Italia-Draghistan e altre amenità. Il certificato verde non sarebbe altro, nel contesto dato, che un indicatore di tale processo, costituendo una misura palesemente discriminatoria, lesiva del principio cardine di uguaglianza. Che si tratti di una tesi inconsistente, fondata su una serie di fallacie argomentative, non mette conto sostare – lo ha già fatto qui in modo definitivo Gianfranco Pellegrino. Aggiungerei soltanto una riflessione a latere.

A riprova del rischio che correrebbe la democrazia, si indica da più d’uno il ricorso, da parte del potere costituito, allo «stato d’emergenza». Ora, a parte la confusione che lettori molto disinvolti di Carl Schmitt fanno tra stato d’emergenza e «stato di eccezione», nonostante il caveat esplicito dello stesso Schmitt in tal senso («con stato di eccezione va inteso un concetto generale della dottrina dello Stato, e non qualsiasi ordinanza di emergenza o stato di assedio»), l’invito a vigilare di fronte alla minaccia dei «pieni poteri» sembra non tenere mai conto del fatto che l’emergenza, banalmente, c’è. Il difetto di realismo, l’indisponibilità a confrontarsi con i dati  e con i fatti di un contesto inedito e drammatico, mi sembra il peccato intellettuale più grave di queste posizioni.

Vale tuttavia la pena chiedersi se, nell’allarme sulla tenuta della democrazia, vi sia comunque un elemento di verità – ancorché, direbbe Maritain, «prigioniero dell’errore». Non credo affatto che vi sia un problema di «tenuta»; credo piuttosto che la situazione di doppia emergenza (difesa contro il Covid e Pnrr) in cui si trova oggi il Paese abbia innescato un processo di ridefinizione de facto degli equilibri, finora sostanzialmente immutati, fra spazio della discussione e modi (che vuol dire tempi e sedi) della decisione. E che altresì risulti indispensabile riflettere sugli sviluppi possibili, a partire da una rigorosa verifica dei poteri, intesa non tanto su chi è chiamato a fare cosa, ma, previamente, sul «cosa» sia, nella realtà dell’Italia di oggi, il potere esercitato dalla politica

Da decenni parliamo di «sistema ingessato», di «democrazia bloccata» e con buona ragione: da decenni il potere si esprime nella forma di «potere di interdizione» assai più che come «potere di decisione». Il venir meno di proposte di governo coerenti e di lunga gittata, dinanzi una realtà globale in rapinosa trasformazione, ha favorito la pratica di uno scambio politico fondato sul reciproco non expedit fra le forze in campo. Le vicende delle riforme elettorali, la cui sequenza sembra un gioco dell’oca perverso, dove la casella finale è la stessa di partenza in forma deteriorata, e quelle delle riforme istituzionali, incompiute e pasticciate, sono la cartina di tornasole di questa impotenza relativa: ciò che non sono in grado di fare, posso almeno impedire che lo faccia tu.

Questo girare a vuoto del sistema nelle sue sedi proprie (governi con maggioranze rabberciate, parlamenti ondivaghi e frammentati, partiti lacerati dalle competizioni interne, rapporti interistituzionali conflittivi oltre misura tra centro e periferia) ha a sua volta dato spazio all’entrata in gioco di sedi improprie (magistratura, alta burocrazia, autorità indipendenti), che di volta in volta hanno potuto interferire, senza alcuna legittimazione democratica, nella determinazione dell’agenda politica e delle sue dinamiche. Una politica che invece di discutere per governare s’impiglia nei nodi di una logomachia sterile e incanaglita, senza affrontare seriamente – non si dice risolvere –nessuna delle arretratezze e delle debolezze del Paese, a lungo andare, può agevolare l’avvento di soluzioni autoritarie? La situazione eccezionale della pandemia e le decisioni forti, immediatamente operative e, pur con incidenti di percorso e contraddizioni, sostanzialmente efficaci dei governi Conte e Draghi, possono far temere il formarsi di un atteggiamento maggioritario nell’opinione pubblica favorevole a tali soluzioni?

La situazione eccezionale della pandemia e le decisioni forti, immediatamente operative e sostanzialmente efficaci dei governi Conte e Draghi, possono far temere il formarsi di un atteggiamento maggioritario nell’opinione pubblica favorevole a tali soluzioni?

Articolare queste domande nello spazio del dibattito pubblico non solo è legittimo, ma necessario. Purché non si confondano le cause con gli effetti. Il varco determinatosi, in seguito all’emergenza sanitaria, per un governo che decide non è all’origine di un presunto scacco della politica, ma piuttosto l’esito non previsto di uno stallo protrattosi troppo a lungo. È la politica della dissolvenza che produce, se non arginata, la dissolvenza della politica. Se la massima aspirazione dei partiti è quella di archiviare al più presto questa stagione per tornare al gioco dei veti reciproci e dell’immobilità, e questa è la loro idea di un «ritorno della politica», siamo davvero su un piano inclinato che mette a rischio non solo il funzionamento ma lo stesso fondamento delle istituzioni democratiche.

A me sembra che il ruolo che possono avere le voci della cultura non debba limitarsi alla deprecazione e, meno ancora, a un allarmismo scomposto, ma deve essere quello di indicare vie realistiche per uscire dall’impasse tra la paralisi riformatrice del passato e la tentazione di scorciatoie extracostituzionali di accentramento del potere. Una legge elettorale coerente, condivisa e stabile nel tempo, che garantisca governabilità e rappresentanza; una riforma costituzionale, accompagnata dalla revisione dei regolamenti parlamentari, che assicuri stabilità dell’esecutivo, attraverso la sfiducia costruttiva, e garantisca per statuto i diritti dell’opposizione; il compimento della riforma del Titolo V, che regoli i rapporti tra centro e periferia. Non è materia nuova? Non lo è. Non scalda i cuori? Può darsi. Ma resta ciò di cui il Paese ha bisogno.