C’è grande confusione nella politica e nei partiti della maggioranza, non solo a proposito del “sì” o del “no” al referendum per la riduzione del numero dei parlamentari, ma per le conseguenze della sua coincidenza con le elezioni regionali. Tale confusione si riflette nell’opinione pubblica mentre nella pubblicistica si legge di tutto e il contrario di tutto. C’è chi si aspetta la grande ripresa con le sempre evocate “riforme”, vista l’attesa per il Recovery Fund europeo che risolva automaticamente i nostri problemi. E c’è chi teme lo scempio della Costituzione, con la fine virtuale della Repubblica così come è stata voluta dai padri costituenti.
Quanti tra coloro che andranno a votare per scegliere “sì” oppure “no” lo faranno perché convinti degli argomenti avanzati dall’una o dall’altra parte, argomenti che spesso convergono nell’assicurazione (verbale) di voler promuovere l’efficienza e la maggiore responsabilità politica del Parlamento? Quanti invece lo faranno piuttosto pensando alle conseguenze immediate – temute o desiderate – per la situazione politica e per il destino del proprio partito di riferimento?
In questo clima che senso ha continuare a sostenere il “no” alla riduzione dei parlamentari? Soprattutto da quando, con la sorpresa di molti e nonostante il “no” di autorevoli rappresentanti storici del partito, la direzione del Partito democratico con una consistente maggioranza ha accolto la decisione di Nicola Zingaretti di schierare il partito della parte dei “si” (sia pure con il riconoscimento della “legittimità” di chi continuerà a votare “no”)?
Personalmente ritengo sia opportuno e razionale continuare a scegliere il “no” innanzitutto per denunciare l’ambiguità e l’opportunismo in cui ci troviamo quando si chiede ai cittadini di esprimersi su una problematica il cui senso va ben oltre il taglio aritmetico dei parlamentari. Dobbiamo insistere sul “no” perché si crei una credibile formazione politica (magari in amichevole polemica con i democratici zingarettiani) che si assuma la responsabilità operativa delle riforme di cui si parla, mantenendo vivo il dibattito. È importante infatti continuare a discutere e non dare già tutto per scontato.
I 5 Stelle restano convinti della popolarità della riduzione del numero dei parlamentari e ne fanno un valore in sé a conferma della propria identità, anche se il motivo originario “punitivo” anti-casta non è più credibile da quando sono diventati di fatto essi stessi parte di questa casta. Ora il loro impegno si configura sempre più come necessità di bloccare la destra e il salvinismo. E indirettamente di conservare il governo esistente. In questo trovano la convergenza con il Partito democratico, con il quale condividono la gestione politica del Paese. Su questo obiettivo, Nicola Zingaretti ha detto: “Abbiamo dovuto pagare un prezzo nel nome della salvezza della Repubblica. Senza questo governo non avremmo potuto affrontare la pandemia. Il populismo, il nazionalismo, una volta andato al governo genera problemi anziché soluzioni, come si vede in altre parti del mondo”.
Ma ora il Partito democratico, considerando il “sì” la premessa per nuove riforme, alza la posta ai suoi alleati di governo. Le proposte che vengono menzionate sono molte e impegnative: bicameralismo differenziato, aggiustamenti locali necessari per garantire la rappresentatività dei deputati, modifiche ai decreti Salvini, utilizzo delle risorse europee del Mes.
Si tratta di un’iniziativa politica in grado di corresponsabilizzare i 5 Stelle oppure di una scommessa con scarse garanzie di successo? La qualità nell’accordo /patto/ alleanza (come diversamente viene chiamato) che lega tra loro il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle viene messa alla prova. Sinora i 5 Stelle sono apparsi reticenti, se non apertamente contrari, innanzitutto al Mes. Ma neppure le reazioni della Direzione Pd sono nette. È ovvio che tutto si deciderà soltanto dopo i risultati del 20 e 21 settembre.
C’è un’ultima considerazione da fare sulla stranezza del tempo politico in cui viviamo. Tutti gli esponenti della maggioranza assicurano di voler mantenere il governo esistente, ma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stato sino a pochi giorni fa manifestamente silenzioso. Come se le decisioni da prendere, il contenuto delle riforme da indentificare e implementare non fossero innanzitutto competenza e responsabilità del governo.
Quando Conte si è rifatto vivo, ha presentato una bozza ampia delle "Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza" in vista del Recovery Fund europeo. Si parla di digitalizzazione e innovazione; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità; istruzione e formazione; equità, inclusione sociale e territoriale; salute. L'obiettivo del Piano è raddoppiare il ritmo di crescita e avere dieci punti in più di tasso di occupazione. Un quadro ambizioso di problematiche e di possibili soluzioni di una completezza e complessità esemplari – sulla carta. Aspettiamo le reazioni dei suoi colleghi di governo.
Sulla personalità di Conte circolano nella stampa i giudizi più diversi, che cercano di decifrare le ragioni della sua popolarità. Forse stanno proprio nella situazione descritta: i politici di partito si confrontano, litigano, eventualmente si accordano; il presidente lavora. Apparenza o realtà, ce n’è abbastanza per inquietare qualche politico. Speriamo di non doverci occupare prossimamente anche di tensioni tra Palazzo Chigi e partiti circa le competenze del presidente del Consiglio.
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