Scrivo questo contributo da una sensazione di frustrazione rispetto al dibattito italiano sul cosiddetto Green Pass – ovvero, sulla obbligatorietà di presentazione del certificato di vaccinazione anti-Covid-19. Frustrazione, questa, dovuta al carattere dicotomico del dibattito; ovvero, alla contrapposizione tra due posizioni fondate su valori definiti astrattamente: da una parte, il rifiuto del Green Pass a prescindere, nel nome della libertà (individuale); e, dall’altra, la difesa del Green Pass a prescindere nel nome della salute pubblica (posizioni che possiamo esemplificare con quelle prese da Giorgio Agamben nell’ultimo anno e mezzo e quella della recente lettera di un centinaio di filosofi italiani). Due posizioni che partono da valori sacrosanti (la libertà di autodeterminazione e la natura collettiva della salute pubblica) ma che risolvono il conflitto in modo unilaterale.

Si tratta, in fondo, di considerare il Green Pass come una politica pubblica e, quindi, di guardare alla sua efficienza e alla sua proporzionalità

Mi sembra che, per uscire da questa impasse, possa essere utile discutere – e criticare – il Green Pass «realmente esistente», ovvero le misure effettivamente proposte nel contesto sociale, politico ed economico determinato dalla situazione pandemica. Si tratta, in fondo, di considerare il Green Pass come una politica pubblica e, quindi, di guardare alla sua efficienza e alla sua proporzionalità. L’efficienza è generalmente definita come rapporto tra efficacia e costo; ovvero, è un «calcolo» dell'adeguatezza dello strumento rispetto alle sue controindicazioni – e, quindi, anche uno strumento comparativo per considerare se esistano altri strumenti più adeguati rispetto ai fini che ci si pone. La proporzionalità è, invece, una valutazione dell’opposto dell'efficienza, ovvero il rapporto tra costi ed efficacia: una valutazione di ragionevolezza dei benefici attesi rispetto ai costi.

Ho messo «calcolo» tra virgolette perché non credo sia produttivo ridurre efficienza e proporzionalità a un paradigma, tipico dell’economia neoclassica, di costi/benefici. Piuttosto, sostengo che oltre a costi e benefici serva tenere in considerazione anche quegli effetti sociali e culturali del Green Pass che, non riducibili a un calcolo economico, sono dipendenti da differenti posizioni valoriali, etiche e di prospettiva. In altre parole, mi interessa fornire alcune coordinate utili a pensare il Green Pass sia dal punto di vista pragmatico sia dal punto di vista politico.

Per determinare queste coordinate, iniziamo dal caratterizzare le dimensioni che costituiscono l’efficacia e i costi della politica Green Pass. I benefici attesi dal Green Pass, rispetto ai quali si può determinarne l’efficacia, sono fondamentalmente due: la prevenzione della diffusione virale in contesti a rischio e la «spinta» alla vaccinazione. Ora, la capacità di prevenzione è determinabile in termini relativamente semplici, una volta che conosciamo abbastanza bene i contesti nei quali il rischio di trasmissione è maggiore: insomma, è evidente che il Green Pass in discoteca ha potenziale di prevenire molti contagi, quello per gli autotrasportatori molti meno. È più complesso ragionare sulla spinta alla vaccinazione: molte persone decideranno razionalmente di vaccinarsi per non doversi sottoporre a test frequenti; ma esistono anche dimensioni controintuitive, per esempio la possibilità che persone non ancora convinte di farsi vaccinare – ma convincibili – polarizzino la loro posizione di rifiuto rispetto a quella che percepiscono come una imposizione. In altre parole, determinare l’efficacia rispetto alla spinta alla vaccinazione richiede certamente studi empirici non riducibili alla variazione del numero di vaccinati a seguito dell’adozione della misura.

Dal punto di vista dei costi, è relativamente facile calcolare l’impatto economico – ad esempio, il mancato fatturato dei ristoranti prodotto dalle persone che rinunciano a mangiare fuori perché preferiscono non vaccinarsi. È già più difficile calcolare – anche perché entriamo nel politico – il costo dal punto di vista dei soggetti che si trovano a dover scegliere tra lavoro e un trattamento medico che rifiutano. In termini più ampi, dobbiamo anche considerare il costo politico di una misura che, nel concreto, sta producendo una significativa polarizzazione e conflittualità del dibattito politico: indipendentemente da quello che pensiamo del cosiddetto «movimento» «No vax / No Green Pass», non possiamo non considerarlo come un fenomeno esistente, con le sue implicazioni politiche. Per inciso, ragionare in termini politici sulle motivazioni di chi non si vaccina o contesta il Green Pass può essere anche utile a decostruire una caratterizzazione – quella di un «movimento» omogeneo – ovviamente grossolana e poco produttiva.

Così caratterizzati efficacia e costi, dovrebbe essere già chiaro che la valutazione di efficienza e proporzionalità difficilmente possa ridursi alle posizioni che dominano il dibattito. Trattandosi di un esercizio piuttosto complesso, è più semplice farlo con due esempi concreti: il Green Pass per i clienti delle attività di ristorazione e il Green Pass sul lavoro. Il Green Pass al ristorante, da un lato, ha una significativa efficacia nel prevenire contagi in contesti a rischio; e, dall’altro, implica un costo marginale (per i clienti, toccati in una «libertà» non certo fondamentale) o facilmente compensabile (per i ristoratori, ai quali si può decidere di fornire ristori proporzionali al mancato fatturato). A chi scrive sembra una misura efficiente, anche in termini di comparazione con altre misure (quali la riduzione del numero di coperti, ad esempio); e, allo stesso tempo, proporzionale, nel senso che, di fronte al beneficio atteso per la salute collettiva, rinunciare alla «libertà» di mangiare al ristorante mi sembra un costo ragionevole da pagare rispetto alla scelta individuale di non vaccinarsi.

Le questioni diventano molto più spinose quando guardiamo al Green Pass sul lavoro, la cui universalità implica una serie di fratture e diseguaglianze significative

Mi sembra, altresì, che le questioni diventino molto più spinose quando guardiamo al Green Pass sul lavoro, la cui universalità implica una serie di fratture e diseguaglianze significative. In termini di prevenzione del rischio, come abbiamo visto, si applica a contesti molto variegati. Anche il «costo» individuale è molto differente a seconda dei soggetti: molto banalmente, non si applica a chi vive di rendita, mentre la sospensione temporanea dal lavoro o fare tre test a settimana (a maggior ragione se a prezzo di mercato) ha un costo molto più significativo per i lavoratori a basso reddito che per quelli ad alto reddito. D’altronde, la variazione dell’efficacia e quella dei costi individuali sono mutualmente indipendenti, per cui la misura è altamente efficiente in certi contesti (ad esempio, per lavoratori ben pagati in contesti ad alto rischio, come i medici che lavorano in ospedale) e chiaramente inefficiente e sproporzionata in altri: per lavoratori a basso reddito, in contesti a basso rischio può apparire come una misura sostanzialmente punitiva – cosa che, forse, può aiutarci a comprendere le radici di una rabbia tendenzialmente più diffusa in categorie come i portuali.

Se passiamo dal piano individuale a quello collettivo, sembra di potere concludere che l’universalità del Green Pass sul lavoro, nel creare profonde fratture e diseguaglianze, rischi di produrre fortissimi costi sociali – nei termini di un conflitto poco produttivo, di risentimento sociale e di disaffezione con la politica – a fronte di benefici complessivamente poco consistenti o, quasi certamente, ottenibili con misure più mirate, come un Green Pass misurato sui contesti e flessibile (ad esempio, prevedendo la fine dell’obbligo nel momento in cui in un certo stabilimento si raggiungano certi livelli di vaccinazione, a loro volta determinati di luogo in luogo dal livello di rischio). Nei termini della spinta alla vaccinazione, in un Paese che, comunque, ha dimostrato una delle adesioni al vaccino più alte al mondo, il Green Pass universale sul lavoro potrebbe in ultima analisi risultare controproduttivo, nel senso di polarizzare un nucleo di persone sempre meno convincibili.

Rispetto alle due posizioni astratte da cui siamo partiti, quindi, pensare in termini di proporzionalità ed efficacia ha il vantaggio di dare concretezza alle questioni di principio: se è evidente che la libertà individuale rispetto alle cure mediche debba confrontarsi con l’interdipendenza strutturale della salute in società complesse; dovrebbe essere altrettanto evidente che la sacrosanta limitazione delle libertà nel nome della salute possa, in certi contesti e per certe categorie sociali, diventare talmente inefficiente e sproporzionata da non essere più una misura di salute pubblica. Un rischio concreto è proprio che il Green Pass sul lavoro diventi, per certe classi sociali, una misura di fatto quasi esclusivamente punitiva – cosa, per inciso, che sembra essere sottesa a molte esternazioni pubbliche sul tema – o comunque percepita come tale da fasce non indifferenti di popolazione. E quindi di spingere certi gruppi sociali verso una destra estrema abile a rimestare nella rabbia, nella confusione e nella preoccupazione, per presentarsi come l’unica forza a difesa della «libertà» individuale. In un Paese che naviga in maniera abbastanza comoda verso tassi di vaccinazione tra i più alti al mondo, sembra, in tutta franchezza, un rischio inutile.