Questo articolo fa parte dello speciale La pandemia degli altri
Nell’ultimo mese e mezzo ho come vissuto in differita. Sono stata in Italia nella settimana delle vacanze invernali alla fine di febbraio. Sono rientrata a Washington il giorno in cui è iniziato il lockdown nella “zona rossa” e in cui la situazione in Lombardia era già fuori controllo. Ho fatto tutto il viaggio con la mascherina, ma eravamo in pochi ad averla su un aereo pienissimo. All’aeroporto il poliziotto di frontiera che ha controllato la green card a me e ai miei figli ha detto “welcome home”. Nessuna domanda sul Paese di provenienza, nessuna misurazione della temperatura.
Nei giorni successivi al mio ritorno ho avuto raffreddore, un po’ di febbre, mal di gola, una grande sensazione di spossatezza. In altri tempi non avrei dato alcun peso al malessere e mi sarei limitata a starmene a casa riguardata. Ma venivo dall’Italia, avevo visitato tre città, preso la metropolitana a Milano, il treno, l’aereo, avevo frequentato ristoranti, stretto mani e abbracciato amici che non vedevo da tempo, fatto due presentazioni in libreria. Una condotta che adesso ci sembra del tutto inconcepibile, ma che in quei giorni era ancora “normale”. Per precauzione sono andata a farmi visitare. La dottoressa incaricata mi ha ascoltata, le ho specificato da dove arrivavo e le mie preoccupazioni, lei mi ha misurato la febbre, guardato la gola e auscoltato i polmoni, tutto senza mascherina, poi mi ha detto che sì avevo un virus ma non era il Coronavirus. L’ha scritto con sicurezza tutto maiuscolo anche sulla ricetta con cui mi ha mandata a casa: “IT’S NOT CORONAVIRUS”. Prima di farlo è sparita dieci minuti, ha detto che andava da un collega per verificare “le procedure”. La procedura era non pensarci neanche di fare un test a una persona con dei sintomi così blandi, per quanto si autodenunciasse come potenzialmente a rischio.
L’idea di negare senza verificare è stata la politica indicata da Trump, che ha continuato per altre tre settimane rispetto a quel momento a disconoscere il problema e a minimizzare i rischi, salvo poi, una volta perso il tempo utile per prevenire il disastro annunciato, far scattare l’allarme con misure frettolose e tardive. Un ritardo che oggi anche il dottore d’America, l’epidemiologo Anthony Fauci, ha dovuto rinfacciare al presidente, non senza ritorsioni della Casa Bianca. A parte forse la Grecia, nessuno ha fatto tesoro dell’anticipo italiano, piuttosto c’è stata una ottusa e presuntuosa idea che il problema non potesse in alcun modo riguardare altri Paesi, meno che mai gli Stati Uniti.
Ho passato le due settimane dell’"anticipo" italiano cercando di applicare per me e la mia famiglia tutte le regole della distanza sociale possibili, non arrivando però a impedire ai figli di andare a scuola, al marito di andare in ufficio, ai teatri e ai cinema di essere aperti, agli studenti universitari di fare le feste. E tutto mi provocava rabbia, perché sapevo che ogni giorno “tutto aperto” si sarebbe tramutato in esplosione di contagi. La rabbia si è sovrapposta alla preoccupazione per l’Italia, quella che ho vissuto come uno stato di nostalgia permanente da quando mi sono trasferita quasi sei anni fa da questa parte del mondo si è espansa, raddoppiando, la preoccupazione è diventata lievito madre della distanza.
In Italia ci sono i miei familiari, i miei amici più cari. I miei genitori sono farmacisti e a 76 e 78 anni non possono permettersi di stare come tutti gli altri coetanei, le persone più a rischio, a casa. I primi giorni ho ingaggiato una battaglia per cercare di convincerli a mandare al pubblico solo il personale più giovane, ma ogni mia obiezione veniva rimbalzata dal loro senso di responsabilità, dall’etica professionale, dalla necessità di non tirarsi indietro, dopo una vita di lavoro, proprio nel momento del bisogno. Alla preoccupazione per l’incoscienza intorno a me si è sommata quella per la coscienziosità di chi ho lontano. Mai è stato così difficile stare lontana dall’Italia, senza sapere quando potrò tornare.
Di fatto la mia vita è rimasta quasi uguale a quella di prima, lavoro da casa, scrivo, quindi sono abituata all’isolamento, a passare intere giornate senza incontrare nessuno. Eppure è tutto cambiato. La vita ritirata e il silenzio di cui sentivo il bisogno sono diventati opprimenti, la scrittura narrativa a cui mi dedicavo è diventata una specie di atto insensato, sempre più faticoso da considerare necessario. Come se il tempo dell’isolamento, che per noi scrittori è pane quotidiano, avesse assunto una densità diversa e innaturale. Così al pane quotidiano metaforico ho sostituito, come tutti, la preparazione di quello reale da mettere in forno e a tavola; preparare da mangiare è diventata l’àncora che tiene saldi all’andare avanti ordinario della vita. A tutti quelli che ci chiedono come stiamo e “come va lì?” non possiamo che rispondere “bene”, anche se oggi i morti statunitensi per Covid hanno superato quelli italiani.
Abbiamo una casa grande, un giardino, di fronte un piccolo bosco che si estende sulle rive del Potomac. Fare due passi o correre non è proibito. Viviamo dal lato giusto del ponte, quello che passa sul fiume Anacostia e divide le due città, la Washington di nordest da quella di sudovest, la prima dove vivono i privilegiati, la seconda quella dove vive una comunità a maggioranza afroamericana, dove non ci sono strutture ospedaliere se non indecenti ed è difficile pure trovare un supermercato. Da questa parte ce n’è uno che consegna la spesa a domicilio con un robottino telecomandato. Dall’altra le mense delle scuole sono rimaste aperte per i bambini che a casa non avrebbero un pasto garantito (e sono tantissimi) e sono gli stessi bambini che non hanno la possibilità di fare lezione a distanza per mancanza dei mezzi necessari.
Senza stupore, più del 70% dei morti di Covid qui a Washington (che ad oggi sono 52) è afroamericano, pur non essendo la maggioranza della popolazione. E la fragilità che mette più a rischio i neri non è certo genetica, ma socioeconomica: spesso soffrono di problemi di salute pregressi per la cattiva nutrizione, o per l'impossibilità di curarsi; sono persone che non hanno risparmi né assicurazione, che guadagnano il necessario per vivere settimana dopo settimana e a cui adesso tocca fare i lavori più a rischio perché non possono permettersi di stare a casa, sempre che una casa ce l’abbiano. Coi miei occhi l’altroieri ho visto un’impiegata di un supermercato visibilmente incinta assegnata alla pulizia dei carrelli e alla regolazione del flusso dei clienti nel garage sotteraneo, il luogo meno adatto per la salute sua e del bambino.
Se c’è una cosa che vale la pena dire su questa pandemia vissuta negli Stati Uniti è che il Coronavirus è un incredibile evidenziatore delle differenze sociali che già erano macroscopiche prima. La questione che il virus non fa distinzioni è una verità distorta, perché magari lui sì colpisce a casaccio, ma non siamo tutti uguali e nelle stesse condizioni di fronte a lui. La retorica “siamo tutti sulla stessa barca” è totalmente falsa. Casomai siamo tutti nello stesso mare in tempesta, ma c’è chi la sta affrontando a bordo di una nave, chi di una barchetta e chi di una zattera. E no, non è proprio la stessa cosa.
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