Questo articolo fa parte dello speciale Viaggio nell'Italia dell'emergenza
In queste settimane di cupa pandemia i calabresi vivono paure paralizzanti. Il timore più grande è che i focolai tracimino e il Coronavirus si diffonda nell’intera regione. La rarefatta demografia, la bassa mobilità inter e infra-regionale e l’adesione di massa al confinamento domestico hanno finora circoscritto i contagi. L’obbedienza dei calabresi alle costrizioni, che stride con la loro notoria “allergia media” alle norme comuni, nasconde un duplice terrore: quello immediato connesso al pericolo di contrarre il virus, comune a tutti gli italiani, e quello latente, ma altrettanto intenso, di fare i conti con un apparato di cura locale congenitamente inadeguato a gestire i rischi connessi all’eventuale dopo-contagio.
I calabresi sono, infatti, consapevoli che difficilmente si potrebbe fare fronte all’acuirsi dell’emergenza con una dotazione di ventilatori polmonari negli ospedali pubblici che era, già nel 2017, sei e nove volte inferiore, rispettivamente, a quelle di Toscana e Lombardia. Questa consapevolezza peraltro è solo un segno del sentimento di sfiducia di lunga durata dei calabresi verso la sanità regionale, spesso per averne sperimentato direttamente la strutturale e patologica fragilità. Solo poco più di un quinto dei ricoverati nel 2018 si dichiara “molto soddisfatto” dell’assistenza ospedaliera, a fronte dei due terzi dei trentini, del 60% di veneti e liguri. D’altro canto, non è un caso se, in media, circa 30 calabresi su 100 ricoverati in regime di day hospital scelgono sistematicamente di farsi curare in altre regioni, spesso assai distanti. Alla realtà non può applicarsi la quarantena: non basta un rinfuso catalogo di ospedali, ambulatori, ambulanze, farmacie, un policlinico, medici, infermieri, funzionari pubblici e manager raccogliticci per fare un sistema sanitario efficace. Né le eccellenze puntiformi, che pure esistono, sono in grado, da sole, di performare il resto e configurare un insieme coordinato di standard, di ruoli, di processi decisionali e procedure di valutazione. Per di più, l’ultimo decennio di piani di rientro e la girandola di commissari governativi, anziché conseguire strategie coordinate e concentriche, ha affastellato confusione di poteri e acefalia gestionale: un doppio fallimento, dello Stato e della Regione, che ha reiterato squilibri economico-finanziari, inasprito la pressione fiscale locale, consolidato la modestia dei servizi erogati. Non meraviglia pertanto che i livelli essenziali di assistenza continuino a denunciare soglie di prestazione tra le più basse nel Paese.
Sul disastro della sanità calabrese incide moltissimo la distorsione persistente della politica locale di considerare il settore sanitario un “grande tutto” indistinto, orientato ai particolarismi e al consenso elettorale, a intercettare succose occasioni di business e a catturare opportunità d’impiego stabili o precarie: l’ospedale è prima tutto questo, poi, soltanto poi, presidio di cura. Ma un peso grande va anche attribuito al drastico disinvestimento pubblico. Nel 2018 la spesa pubblica pro-capite nel settore sanitario calabrese è stata di circa 1.600 euro, il valore più basso in Italia, a fronte dei 2.000 di 10 anni prima (-27,8%; stabile nel Centro Nord). I tagli hanno implicato una riduzione generalizzata dei posti letto, il depauperamento del personale, di quello sanitario in particolare (-30%), e l'accentuazione del processo di invecchiamento degli operatori: solo l’1,5% dei medici generici calabresi è laureato da meno di 20 anni (a fronte di circa il 20% in Toscana e del 7,7% in Italia). Impressiona poi l’esiguità degli investimenti pubblici in conto capitale: meno di 16 euro annui a prezzi costanti per calabrese nel periodo 2000-2017, 12 volte meno di quello medio della provincia di Bolzano (184 euro) e tre volte più basso di quello medio nazionale (44,4 euro) (Viesti). Sicché, mentre i cittadini di buona parte del Nord hanno goduto di dotazioni infrastrutturali e strumentali sanitarie via via più ampie e di maggiore qualità (sebbene inferiori rispetto alla media dei Paesi europei), i calabresi hanno beneficiato di investimenti al più di compensazione dell’obsolescenza di strutture e di impianti. Con l’aggravante che a volte gli esigui investimenti sono stati colpevolmente utilizzati per realizzare strutture inutili o mai completate o per attrezzature mai utilizzate.
Insomma, anche dopo il tramonto del virus, i calabresi continueranno ad abitare nel tunnel, con addosso la persistente paura di ammalarsi. È dunque importante, più che altrove, che nell’emergenza sanitaria e socio-economica si avviino azioni e interventi rivolti sia a lenire le sofferenze e limitare i danni della congiuntura avversa sia a prefigurare ciò che dovrà essere la struttura della Calabria post-pandemia. Diversi soggetti collettivi e istituzioni locali – imprese no profit, amministrazioni comunali, parrocchie, associazioni di volontariato, centri culturali – hanno reagito e si muovono nella doppia prospettiva congiuntura-struttura. Si tratta di movimenti resilienti per lo più spontanei, disordinati, frammentati, ma comunque incoraggianti, tonificanti.
L’Università della Calabria (Unical), il luogo idealtipico della vischiosa modernizzazione calabrese post-bellica, è uno degli attori locali che ha scelto intenzionalmente di mobilitare il proprio potenziale di conoscenza e di competenze per combattere il virus con una molteplicità di azioni e di strumenti con lo sguardo al breve e al medio-lungo periodo. L’Unical è costitutivamente un ateneo embedded: è nata deliberatamente, nei primi anni Settanta, per trasformare il contesto, formando figure professionali e cittadini tendenzialmente “alteri” ai circuiti della struttura sociale tradizionale e reclutando giovani professori con esperienze e competenze sulla frontiera della conoscenza scientifica e tecnologica. Un’università ab origine “speciale”: intimamente connessa e allo stesso consapevolmente estranea all’ambiente locale. Nel 1972, all’avvio dei primi corsi di studio, Beniamino Andreatta, il rettore-fondatore dell’Unical, non esitò neppur un attimo a chiamare a raccolta e incoraggiare docenti e studenti ad andare a Fabrizia, un comune interno nelle Serre della Calabria centrale, colpito da un’alluvione di rara intensità, per portare cibo, coperte, tende e soccorso umano a quella piccola comunità.
Sebbene l’ambizioso disegno iniziale, per effetto delle pressioni locali e di dissennate politiche universitarie nazionali, si sia progressivamente annacquato, quello spirito fondativo ancora aleggia nel campus di Arcavacata. Non a caso, già dai primi giorni di diffusione del virus nel nostro Paese, singoli e gruppi di ricercatori si sono messi spontaneamente al lavoro per proporre soluzioni, piccole e grandi, di contrasto. In un laboratorio è stata accelerata la sperimentazione di una molecola potenzialmente in grado di offrire una cura contro l’infezione da Covid-19; altri tecnici e ricercatori si sono concentrati sulla gestione della quotidianità nel tempo dell’emergenza: chimici che hanno spiegato in un filmato come produrre disinfettante a casa, proprio mentre le scorte diminuivano nei supermercati e nelle farmacie; esperti di comunicazione che hanno ideato e diffuso un decalogo utile a contrastare il bombardamento di notizie sul virus, spesso di dubbia fonte, fornendo alle persone uno strumento per evitare di essere contagiati dalle fake-news. Durante questa fase spontanea è via via cresciuta la consapevolezza della necessità di moltiplicare e coordinare le azioni e si è dato vita a una specifica task-force di ateneo (“unicalvscovid19”), facente capo direttamente al rettore, con funzioni di organizzazione e coordinamento delle attività e di stimolo di nuove iniziative attraverso il lancio di una specifica “call for ideas”. In una settimana la “call” ha raccolto più di venti proposte di azioni di varia natura, tecnologica e sociale, sovente in partnership con altre organizzazioni e istituzioni locali: dalla produzione di disinfettante per gli ospedali allo sviluppo di strumenti per le immagini mediche; dal supporto alla ventilazione polmonare alla produzione di mascherine; dal potenziamento della didattica a distanza all’offerta di lezioni disponibili online; dall’assistenza psicologica e socioassistenziale a distanza al supporto medico alle famiglie dei dipendenti Unical; dall’assistenza agli studenti Erasmus all’estero alla consulenza ai comuni per l’interpretazione e l’applicazione normativa dell’emergenza. A latere di tutto questo, è stata lanciata una raccolta fondi da destinare alle strutture sanitarie calabresi su progetti mirati, che in pochi giorni ha raggiunto i 50 mila euro.
Insomma, una prova di resilienza per l’Università della Calabria e per quanti, nella regione, cercano di agire nonostante le ostilità del contesto. O forse proprio perché di queste vi è drammatica e responsabilizzante coscienza.
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