Questo articolo fa parte dello speciale La pandemia degli altri
Curiosa situazione, quella di noi italiani all’estero ai tempi del Coronavirus: ci siamo trovati improvvisamente in mezzo a una discrasia temporale tra l’Italia e i nostri Paesi di residenza che, in maniera generalizzata in Europa, hanno scontato qualche giorno o settimana di “ritardo” sia nelle curve del contagio, sia nelle dinamiche socio-politiche di reazione. Il senso di urgenza che veniva dalle notizie dall’Italia – e dalle parole dei nostri cari – a fine febbraio si è quasi ovunque scontrato con la sottovalutazione degli altri Paesi europei; sottovalutazione che, in Italia, aveva caratterizzato le settimane precedenti. Fino al giorno in cui, uno dopo l’altro, quasi tutti i Paesi europei sono entrati in “emergenza”.
Uno strano déjà vu cui non è stata estranea l’esperienza portoghese, dove lo stato di emergenza è stato dichiarato, per la prima volta dalla rivoluzione democratica del 1974, il 18 marzo. Ed è proprio su questo e sulla risposta dello Stato che vorrei focalizzare questo intervento, perché è un ottimo punto di osservazione delle contraddizioni di questo Paese un po’ periferico nelle dinamiche europee.
Partiamo proprio dal decreto del presidente della Repubblica (il numero 14-A/2020, rinnovato dal decreto 17-A/2020 del 2 aprile) che istituisce lo stato di emergenza, disponendo la sospensione parziale di una serie di diritti, in sette aree: movimento sul territorio nazionale, proprietà privata, diritti dei lavoratori, mobilità internazionale, diritto di riunione e manifestazione, libertà di culto, diritto di resistenza – l’articolo 21 della costituzione sancisce il diritto a «resistere a qualsiasi ordine che prediugichi i propri diritti, libertà e garanzie, e all’autodifesa rispetto a qualunque aggressione».
Ora, i punti del decreto non specificano esattamente quali diritti sono sospesi – danno pieno potere all’esecutivo per emanare le relative regolamentazioni – con due eccezioni: è sospeso il diritto allo sciopero, ove questo possa compromettere il funzionamento di infrastrutture critiche, prestazioni cliniche e settori economici «vitali per la produzione, distribuzione e fornitura di beni e servizi essenziali»; e quello di resistenza, specificando che è proibita qualsiasi opposizione agli ordini emanati in esecuzione dello stato di emergenza. Sappiamo, grazie all’esperienza italiana, che lo sciopero è stato strumento fondamentale, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, perché lavoratori e lavoratrici potessero ottenere garanzie minime di sicurezza; e la decisione portoghese di sospenderne il diritto è piuttosto indicativa del “fastidio”, per così dire, governativo per le lotte del lavoro. La buona notizia è che le lotte non si sono fermate ovunque: ad esempio, i lavoratori e lavoratrici dei call center – settore che conta con oltre 50 mila posti di lavoro nell’area metropolitana di Lisbona – sono entrati in sciopero il 24 marzo per richiedere il telelavoro, denunciando che i dirigenti sono stati i primi a scomparire dagli uffici sovraffollati in cui è impossibile rispettare alcuna distanza di sicurezza.
Il giorno seguente alla dichiarazione dello stato di emergenza, il governo ha lanciato (Decreto 2-A/2020, rinnovato dal decreto 2-B/2020 del 2 aprile) le misure di contenimento destinate alla popolazione, divisa in tre gruppi: persone contagiate o sotto vigilanza, obbligate alla quarantena; persone a rischio, che possono uscire di casa solo per esigenze di acquisto di beni essenziali, di salute o di attività fisica; e tutti gli altri, per i quali esistono più eccezioni, incluse quelle professionali. In sintesi, misure un po’ più lasche di quelle italiane. Come in Italia, parte della stampa ha sviluppato un’ossessione per le violazioni dei decreti, spesso con racconti al limite del falso – ad esempio, quando la lunga fila sul Ponte 25 Aprile causata dai controlli sistematici della polizia è stata attribuita alla irresponsabilità degli automobilisti, sebbene quasi nessuno sia stato trovato in violazione dei decreti. Dati dei primi giorni di aprile, d’altronde, parlavano di poche decine di denunciati in tutto il Paese. Le scene simil-paranoiche non mancano, come, ad esempio, i droni mandati dal comune di Porto sul lungomare con altoparlanti che ammonivano: “Tornate a casa!”. Ma, almeno dal mio punto d’osservazione, Arroios, storico quartiere popolare nel centro di Lisbona in via di gentrificazione, non ho ancora visto svilupparsi una cultura diffusa della delazione come quella di cui si sente parlare dall’Italia.
In questo contesto, il governo sta attuando misure di varia natura. Ha fatto abbastanza scalpore a livello internazionale la decisione di concedere un’autorizzazione temporanea di residenza a tutti i migranti e richiedenti asilo con processi pendenti presso la polizia di frontiera (il Sef) – quello che non è stato raccontato è che il Sef è al collasso da alcuni anni, gli appuntamenti per la concessione o rinnovo dei visti venivano concessi anche dopo 6 mesi di attesa e che i richiedenti asilo potevano aspettare anni, come documentato da associazioni e gruppi attivisti. Non è stato nemmeno raccontato che, in Algarve, un gruppo di 74 lavoratori e lavoratrici nepalesi sono stati posti in quarantena forzata, tutti insieme in un padiglione scolastico, dopo che uno di loro è risultato positivo al test per il Covid-19.
Ci si domanda perché non si requisiscano – come permesso dal decreto dello stato di emergenza – le migliaia di appartamenti turistici vuoti, dei quali moltissimi in Algarve, per garantire una quarantena in sicurezza. Domanda che ci porta a un altro tema di profonde contraddizioni, quello della casa. Il boom portoghese, tanto decantato, è stato fortemente dipendente dalla crescita del turismo e dalla speculazione immobiliaria. Da una parte, questo implica che, visto lo stop a tutti gli spostamenti internazionali, le conseguenze della pandemia per l’economia nazionale saranno durissime – uno studio dell’Universidade Católica considera altamente probabile una caduta del Pil di oltre il 10% nel 2020. Dall’altra, l'esplosione dei prezzi della casa negli ultimi anni – Lisbona è passata rapidamente dall’essere una delle capitali europee più economiche a quella col costo più alto in proporzione ai salari – aveva già abbondantemente inciso sulle tasche delle famiglie, rendendo l’impatto sociale della pandemia ancora più profondo. Appelli e richieste di intervento si sono moltiplicati, per esempio la petizione “Come fare quarantena senza casa?”, lanciata dai gruppi di attivisti StopDespejos, Habita e Sirigaita, o la lettera aperta “Casa e Covid-19”, lanciata dalla Rete nazionale di studi sulla casa.
Il governo ha approvato alcune misure positive, come la sospensione di sfratti e sgomberi – ma, ad esempio, pochi giorni prima della dichiarazione dello stato di emergenza, il Comune di Lisbona ha sgomberato, nel quartiere Bensaúde, una settantina di Rom che occupavano case popolari abbandonate e che ora stanno vivendo in auto e sotto tendoni a pochi metri dalle case tornate vuote. È stata consentita la sospensione dei pagamenti delle rate dei mutui e istituita una moratoria del pagamento degli affiti – per molti, affitti iper-speculativi generati negli ultimi anni. I movimenti di attivisti hanno però commentato che non si può affrontare il problema indebitando le famiglie che, finita l’emergenza, si troveranno a dover pagare gli arretrati.
La pandemia, in Portogallo, sta acuendo le profonde contraddizioni di una crescita rapida ma pericolosamente dipendente, e mostrando quelle di un governo che ha gestito l'austerità più che porle un freno. Sembra evidente che la scommessa di creare una Florida europea, fatta di servizi per ricchi – pensionati e turisti europei – sia saltata, per il momento: come si uscirà da questa pandemia determinerà se questo Paese sarà capace di reinventarsi un futuro, forse meno sfavillante, ma possibilmente più giusto e indipendente.
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