Questo articolo fa parte dello speciale La pandemia degli altri
La mascherina. Nell’immaginario collettivo resterà l’emblema più riconoscibile della drammatica vicenda che stiamo attraversando. La si considerava uno strumento un po’ desueto. Il ricordo, ormai lontano, della Sars. Qualcosa da associare all’Oriente e, spesso, alla Cina. Un paio di mesi fa, con un po’ di buona volontà, reperirne una scatola non sarebbe stata un’impresa titanica. Ma a Mosca, come in tante altre parti del mondo, se ne erano resi conto in pochi.
In quel momento, mentre l’Italia aveva già bloccato i voli diretti con la Cina, la Russia non si apprestava a farlo. Il terminale F dell’aeroporto Sheremyetevo di Mosca era stato scelto per lo sbarco e il controllo della temperatura corporea dei turisti cinesi. Un trattamento riservato solo a loro. Benché fossero, in quel momento, gli unici muniti di qualche protezione. La convinzione diffusa nell’opinione pubblica era che fosse un fenomeno da circoscrivere a quel Paese. Che, nel gabbiotto, l’addetto al controllo dei passaporti, fosse anche lui dotato di mascherina non riusciva a scalfire gran parte delle proprie sicurezze. Anche se quello fu il primo, seppur tenue, segnale di un’ansia sotterranea che a breve ci avrebbe avvolto nella quotidianità. Ma all’aeroporto, come nelle strade della megalopoli russa, la totale assenza di visi protetti dalla mascherina rimuoveva quel primo segnale d’allarme. La decisione del governo russo di sospendere dal 23 febbraio la concessione dei visti ai cittadini cinesi confermava l’idea di un virus da confinare a quel Paese. Chiudere l’accesso allo sterminato esercito di turisti cinesi in Russia sarebbe stato un sacrificio rilevante per il business turistico. Ma, si supponeva, in qualche mese superabile. Questa l’opinione corrente. Non solo a Mosca e dintorni.
Ma per gli italiani all’estero l’insidia era dietro l’angolo. Se il «cinese» era stato colui dal quale tenersi a debita distanza, entro breve tempo saresti stato tu, in quanto italiano, a sostituirlo in quel ruolo. Senza che subito te ne potessi accorgere. Qualche giorno «dopo Codogno», un tuo partner commerciale russo, senza troppi complimenti, con piglio tra il sospettoso e il preoccupato, ti chiedeva a brutto muso: «Scusa, ma da quanto tempo sei arrivato dall’Italia? Stai bene?». Ci mettevi poco a realizzare che per te, italiano, ora sarebbe stato difficile farti ricevere con la benevolenza e la simpatia del passato. Al ristorante, o col tassista, nel dubbio tra l’evitare l’argomento o dichiararti di altra nazionalità, la seconda scelta ti appariva più tranquillizzante. L’immagine fascinosa e accattivante del Belpaese, da sempre radicata nella maggioranza del popolo russo, si stava trasformando in un senso di commiserazione di fronte all’incedere funesto degli avvenimenti nella penisola. La progressione drammatica del numero di contagi, delle morti, l’annullamento del Salone del Mobile di Milano scandivano le tappe del progressivo scivolamento italiano nella palude virale. Lo schermo della tv nel vagone della metropolitana, a fianco delle porte scorrevoli, annunciava con l’ausilio di cartoons che la situazione italiana si stava aggravando a tal punto… da sospendere il campionato di Serie A. Evento che qualsiasi straniero considera traumatico per ogni italiano.
L’atteggiamento dell’opinione pubblica russa di fronte al procedere della pandemia non si è allontanato troppo da quello degli altri Paesi. La globalizzazione, anche in questo campo, ha uniformato le menti. Un sentimento di lieve preoccupazione, di remota angoscia, supportato da un senso di estraneità per una minaccia che si vuol considerare lontana e poco credibile. E, al fondo, un desiderio di sminuire qualcosa che spaventa. L’approccio con cui, di solito, ci si prepara agli avvenimenti drammatici e luttuosi di ogni epoca.
Sin dall’inizio, le autorità governative russe si sono mosse con grande cautela. Sia per stemperare il panico incipiente, sia per trasmettere l’idea di un pieno controllo della situazione. Le iniziative di Tatjana Golikova, vicepremier e responsabile per i problemi legati al Coronavirus, si sono ispirate a questi presupposti. Non è mancata una vena di orgoglio nazionale nell’organizzazione degli aiuti umanitari all’Italia. La scritta, nella parte posteriore della fusoliera dei 14 Iljushin-76, «Dalla Russia con Amore», con a bordo un centinaio di medici militari e attrezzature sanitarie, cercava di comunicare, in modo elegante, la ritrovata capacità operativa e organizzativa della Russia di Putin.
Ma il precipitare della situazione ha imposto al Cremlino un crescendo inarrestabile di nuove misure. Stoppato, senza troppa fretta, l’ingresso ai cittadini cinesi, su richiesta del sindaco di Mosca, Serghej Sobjanin, dal 5 marzo si è passati al controllo sanitario in aeroporto e alla quarantena obbligatoria per tutti coloro provenienti da Italia, Spagna, Francia, Germania, Iran e Sud Corea. E da metà marzo, come per i cinesi, è scattato il blocco dei visti per i cittadini di quei Paesi. I pochi casi ufficiali di contagio nel territorio della Federazione Russia venivano spiegati come cosiddetti «casi di ritorno», quindi di persone ritornate da Paesi con un’ampia diffusione del contagio. I mass media russi che, tranne rari casi, sono poco in sintonia con l’idea di un’informazione libera e pluralistica, non contemplavano mai la possibilità di focolai interni. Il Governo ha sempre smentito le ipotesi, pur presenti nei social, di eventuali falsificazioni o ridimensionamento dei dati ufficiali dei contagiati che sino a metà marzo si potevano contare sulle dita di una o due mani.
Ma l’incedere del virus, purtroppo, non lascia troppe macchie bianche. E i tentativi dilatori per non affrontarlo, provando a sigillarsi dall’esterno contaminato, sono rimasti, anche in Russia, senza speranze. La presa di coscienza, pur non inattesa, è stata repentina. L’incontro del 24 marzo tra Denis Prozenko (risultato positivo al tampone nella settimana successiva), direttore dell’ospedale Kommunarka di Mosca, specializzato nella cura del Covid-19 e Vladimir Putin, è stato il campanello d’allarme. «Possiamo aspettarci uno scenario di tipo italiano» queste le parole con cui il sanitario informava il presidente e tutto il Paese sulle prospettive future. Il giorno successivo, alle 16, Putin con un appello a tutti cittadini, reiterato il 2 aprile, riproponeva buona parte del menù che siamo abituati a scorrere negli ultimi tempi: festività (versione soft della serrata) sino a fine aprile, sospensione di mutui e tasse (tranne l’Iva) per 6 mesi, quarantena per tutti i cittadini della Federazione, chiusura parziale o totale degli esercizi commerciali. Con lo Stato, almeno sulla carta, a far da garante per i mancati redditi dei cittadini. E per sostenere queste spese supplementari, in epoca di prezzi del petrolio in picchiata, una tassa del 15% delle rendite finanziarie sui titoli esteri e, a partire dal 2021, una tassa del 13% dei depositi bancari superiori al milione di rubli. In aggiunta, lo spostamento, a data da destinarsi, del referendum del 22 aprile che avrebbe modificato la Costituzione, permettendo al presidente in carica di potersi ricandidare senza limitazioni riguardanti il numero dei mandati già espletati.
Se l’adozione del cosiddetto «modello italiano» riuscirà a frenare il contagio è una scommessa ancora da vincere. Più certo che il trauma economico penalizzerà una popolazione già alle corde per le sanzioni seguite all’annessione della Crimea nel 2014 e al conflitto nel Donbass, mai del tutto sopito. Le cospicue riserve valutarie dovrebbero tutelare la stabilità finanziaria. Ma il crollo del prezzo delle materie prime, il calo dei consumi, la fragilità della media e piccola impresa, la quasi totale assenza di tutele per il mondo del lavoro lasciano supporre che la maggioranza dei russi dovrà stringere ancor di più la cinghia. Un esercizio nel quale, nel corso della storia, il popolo russo si è dimostrato sempre molto competitivo.
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