Ciò che succede tra il febbraio e il marzo 2020 ha la stessa velocità con cui ci siamo abituati a muoverci e ad abitare il mondo. Ben presto, non appena il contagio si allarga ben oltre i confini della Lombardia, gli Stati che confinano con l’Italia cominciano uno dopo l’altro a chiudere i confini e il senso di comunità dell’Europa viene messo per l’ennesima volta alla prova. E, ancora una volta, fallisce. Le politiche dei vari Stati membri non sembrano poter trovare un’unità di intenti neppure in un momento così drammatico, nonostante gli appelli a non disgregarsi; né tantomeno paiono trovare unità d’azione: chi chiude tutto, chi lascia tutto aperto. La percezione che questo flusso possa interrompersi (chissà perché) in Italia sembra dominare la comunità europea.

Anche in Albania la sensazione è la stessa, la paura del virus si esorcizza nella convinzione, del tutto irrazionale, che il contagio resti all’interno dei confini italiani. Nei bar di Tirana le persone scherzano, fanno battute, ricorrono al Raki (la grappa albanese), panacea contro ogni male e, oggi, scudo al virus. La vita continua normalmente e si consuma nei problemi quotidiani dei finanziamenti del ministero della Cultura a chi non li merita, nelle politiche “dittatoriali” del primo ministro Rama. Nell’università dove insegno ognuno è impegnato con gli esami di fine semestre e con l’apertura del secondo semestre, il Covid19 è un’eco che viene ora dalla lontana Italia.

Ogni giorno, all’aeroporto di Rinas (l’unico aeroporto presente sul territorio albanese) apparecchi di diverse compagnie fanno la spola più volte al giorno, da e per diverse città italiane: Milano, Lampedusa, Pantelleria, Reggio Calabria, Torino, Roma, Bergamo, Bologna, Verona, Linate, Rimini, Cuneo, Venezia, Brindisi, Treviso, Genova, Bari, Perugia, Firenze, Pisa, Pescara, Napoli, Ancona, Cagliari. Migliaia di persone continuano a viaggiare tra i due Paesi, tanto il virus qui in Albania non arriva. Il flusso si è spezzato (chissà perché) nella lontana Italia, noi (albanesi) siamo un popolo forte, siamo abituati ai virus, il Covid19 ha paura di venire qui da noi.

Una foto, scattata probabilmente durante la crisi del 1997, ritrare un gruppo di albanesi su una montagna che imbracciano dei fucili; basta aggiungerci la dicitura “vlonjatët duke pritur coronavirusin” (gli abitanti di Valona che aspettano il Coronavirus) e la foto diventa immediatamente virale, più forse come un rituale per esorcizzare la paura che quel flusso non si fosse davvero (chissà perché) interrotto in Italia.

Il 9 marzo, nel primo pomeriggio, vengono ufficializzati i primi 2 casi di persone positive al Covid19 in Albania. Il flusso non si è interrotto e mentre l’Italia cerca faticosamente di fermarsi e il virus si apre al mondo intero, le ore del pomeriggio del 9 marzo 2020 qui scorrono frenetiche. Il ministero dell’Istruzione attraverso un Decreto chiude immediatamente tutte le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado. Studenti e professori lasciano l’Università nella quale insegno in una fuga quasi apocalittica verso casa. Il supermercato (italiano) sotto casa mia è preso d’assalto, tutto attorno a me si muove veloce, molto veloce, in un ritmo frenetico che per qualche motivo mi ricorda le festività natalizie. Ma adesso non ci sono luci, né canzoni gioiose, solo il terrore prodotto dalla certezza che il flusso non si è interrotto. Il virus è qui tra noi in Albania, evidentemente gli abitanti di Valona non sono riusciti a fermare il Covid19 con i loro fucili né la Raki è abbastanza forte per sconfiggerlo.

Il giorno dopo è il primo giorno ufficiale di quarantena, il governo Rama chiude tutto, ristoranti, bar, luoghi di ritrovo, uffici, negozi. Istituisce anche un coprifuoco, si esce al mattino dalle 6 alle 10 e il pomeriggio dalle 16 alle 18. Non basta, la gente continua a uscire di casa, cerca di mantenere le vecchie abitudini (vecchie, di quanto? di un giorno prima?). Scene già viste in Italia. Nei giorni successivi il governo istituisce un coprifuoco che si estende a tutto il fine settimana, iniziando alle 13 di sabato per terminare alle 5 di lunedì mattina. C’è il primo decesso, una signora di Durazzo che era tornata dall’Italia.

Non ci sono notizie frenetiche nelle televisioni, o nelle radio. I dati li comunica solo il governo e non vengono mai comunicati in maniera troppo veloce. Nei giorni successivi (ormai sono trascorse più di due settimane) i casi aumentano, il bollettino del 26 marzo 2020 recita: 174 contagiati e 6 morti. Circolano fotografie del primo ministro Rama che attraversa a piedi in lungo e in largo la capitale per controllare e rimproverare personalmente le persone in giro senza motivo. Lo stesso governo ha lanciato nei primi giorni della quarantena diverse iniziative, prese guardando all’Italia, ora di nuovo vicina.

Musica e applausi ai medici dai balconi. Qualcuno, nel nostro palazzo, ieri ha aperto le finestre facendoci ascoltare musica tradizionale del Nord Albania a tutto volume, accompagnandola col fischio tipico dei balli folcloristici albanesi. Non è durato molto, forse perché nessuno si è affacciato. Tutti guardano la televisione, tutti ascoltano l’aggiornamento dei dati.

In questo momento il virus, ora pandemia, appartiene a tutti noi, chiusi nei nostri confini e nelle nostre case. Siamo tutti fermi, il mondo si è fermato, non nella rotazione attorno al suo asse e nella sua orbita attorno al Sole, ovviamente: il mondo si è fermato dentro. Nell’attesa che qualcuno, fregandosene dei confini, arrivi di corsa e nel silenzio di una piazza deserta urli con tutta la voce che ha in corpo “tana libera tutti!”.

 

 

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