«Provincia assai giovevole alle altre del Regno, ma in quanto a sé è la più inutile che vi sia». Così nel 1573 l’avvocato napoletano Camillo Porzio caratterizzava acutamente la Capitanata (corrispondente grosso modo all'attuale provicia di Foggia) in una relazione al nuovo viceré spagnolo di Napoli, alludendo al debole rapporto tra uomo e ambiente, alla scarsità della domanda interna e alla vocazione di «servizio» di questa terra: «Malissimo abitata […], si può chiamare il granaio non solo di Napoli e del Regno, ma di molte città d’Italia; […] vi si fa il sale e il salnitro e nutrisce la maggior parte del bestiame del Regno, che da’ luoghi montuosi e freddi discende al piano e all’aria temperata», nonché i cavalli e le giumente degli allevamenti regi.

Con una bassissima densità di popolazione, insufficiente a far fronte alla domanda di braccia per la mietitura, garantita solo dall’afflusso di immigrati stagionali dalle province contermini, senza insediamenti di una certa consistenza nella vasta pianura in buona parte malarica, questa terra era grande produttrice di grano e biade, nonché terminale della più grande transumanza ovina meridionale che, a prezzo di vincoli all’uso della terra governati dalla Dogana della Mena delle pecore di Foggia, consentiva di rifornire di agnelli, formaggi e lana i grandi centri di consumo e di trasformazione manifatturiera del Mezzogiorno tirrenico e dell’alto Adriatico. Terra di grandi feudi e, più tardi, di grandi proprietà ecclesiastiche (Gesuiti del Collegio romano, Certosa di San Martino di Napoli, abbazie commendate ecc.), oltre che di immensi latifondi della Regia Corte, vedeva sfuggirle i grandi flussi di rendita che venivano investiti altrove («principal membro di entrate regie» – la definisce ancora il Porzio – «desiderata da tutti i Principi vicini e lontani», per l’abbondanza delle produzioni e i redditi che garantiva).

Nell’Ottocento, quando vengono gradualmente eliminati i vincoli all’uso della terra imposti dalla protezione istituzionale della transumanza, la popolazione prosegue la crescita avviata nel Settecento, anche grazie alle immigrazioni stabili, e si comincia a investire significativamente da parte delle nuove élite proprietarie nell’impresa agricola e nella trasformazione produttiva della terra. L’inserimento nel mercato nazionale e internazionale continua però a essere sostanzialmente dipendente, giacché la fase della commercializzazione è controllata da operatori esterni all’area e la presenza sul mercato, accanto ai cereali e, sempre meno, alla lana, avviene, tranne poche eccezioni, con prodotti agricoli a basso valore aggiunto (ad esempio con i vini da taglio). La situazione non muta significativamente nel Novecento, quando si fanno importanti investimenti pubblici nella bonifica e nella trasformazione dell’assetto proprietario e della trama insediativa, questi ultimi in buona misura vanificati dalla fuga dalle campagne e dall’esodo rurale negli anni Sessanta del Novecento.

Non sembri fuori luogo una premessa storica a una rapida analisi dell’economia e della società della Capitanata odierna, che contiene al suo interno la più vasta provincia dell’Italia peninsulare, quella del Tavoliere, con una densità di popolazione tra le più basse d’Italia (94 abitanti per chilometro quadrato, meno di un terzo di quella media pugliese) e con una delle sue componenti territoriali (quelli dei Monti Dauni) a rischio di spopolamento (Bovino, già capoluogo di sottoprefettura, è passata in sessant’anni da 9.500 a 3.500 abitanti, mentre il borgo, di origine francoprovenzale, di Celle San Vito non ha che 170 abitanti, dagli 800 del secondo dopoguerra).

Di questo spopolamento non «beneficiano» più i centri della pianura del Tavoliere e la città capoluogo, Foggia, in calo demografico da almeno un ventennio, mentre nella terza macro area, il Gargano, ai centri di maggiore sviluppo, in crescita demografica (Vieste, Peschici, San Giovanni Rotondo), fanno da contrappunto alcune comunità dell’interno (Monte Sant’Angelo, San Marco in Lamis) in calo vistoso.

Nella lunga durata dei processi storici crediamo si possano rintracciare i limiti, non rimossi, e le opportunità di questa vasta provincia meridionale, ancora non sfruttate.

Tra i primi, sicuramente va segnalata la debolezza nella fase della commercializzazione, soprattutto nel comparto agricolo, su cui torneremo, e l’eterodirezione dei processi economici che riguardano la provincia, conseguenza, anche, di una scarsa autorevolezza – salvo brevi fasi - delle sue classi dirigenti.

Per quel che riguarda le opportunità, accanto alla scarsa valorizzazione delle risorse culturali e ambientali – si pensi alle riserve naturali delle paludi e dei laghi costieri, ai grandi boschi demaniali del Gargano, ai siti archeologici, a lungo predati senza scrupoli, ai castelli e ai centri storici di numerosi borghi di fondazione medievale – che potrebbero contribuire a destagionalizzare un turismo, prevalentemente balneare, che vive sostanzialmente nei soli due mesi estivi, c’è quella, clamorosamente mancata, di area a servizio logistico delle aree contermini (Irpinia, Sannio beneventano, Molise, Basilicata settentrionale, Nord Barese), oltre che della stessa provincia.

Invece di essere valorizzata come grande piattaforma logistica, paradossalmente, la Capitanata soffre di un vistoso deficit infrastrutturale che penalizza non solo il settore agricolo e quello manifatturiero, ma anche il turismo, nonché il diritto alla mobilità di chi ci vive e vi opera. Nell’attesa della conclusione della surreale vicenda dell’allungamento della pista dell’aeroporto di Foggia, per consentire per lo meno l’arrivo dei charter nel periodo estivo, del completamento del raddoppio dell’unico binario della ferrovia adriatica nel breve tratto tra Ripalta e Termoli, e dell’alta velocità tra Foggia e Caserta, ferrovia anch’essa in gran parte a un solo binario, la Capitanata è collegata con Roma con tre soli Freccia Argento e un Intercity al giorno. Questa situazione vanifica sostanzialmente gli investimenti già fatti per il potenziamento della Potenza-Foggia e per la velocizzazione della ferrovia garganica per Rodi G.-Peschici-Calenella. La promessa di un nuovo treno per Roma in orari antelucani non pare possa migliorare di molto la situazione.

Inutilizzato è, inoltre, il porto Alti fondali di Manfredonia, il cui vecchio scalo è stato fino al Settecento il maggiore per le importazioni nel Regno di Napoli, punto di «rottura» dei carichi che venivano dall’Alto Adriatico ed erano diretti verso le popolose aree campane e la Puglia settentrionale. Le potenzialità dell’infrastruttura non sono state per nulla promosse dalla velleitaria istituzione di un’Autorità portuale autonoma, mentre ora si attendono i frutti della recente confluenza nell’Autorità dell’Adriatico meridionale con sede a Bari. Il municipalismo aveva già prodotto, peraltro, sprechi e distruzione di risorse con l’istituzione dell’interporto di Cerignola, a pochi chilometri dall’altra struttura intermodale, più vocata, di Foggia-Incoronata, dove operano importanti imprese di logistica.

Nonostante le carenze infrastrutturali e una situazione non facile, soprattutto in alcune aree, per la sicurezza collettiva e la libertà di impresa, su cui pesano non infrequentemente condizionamenti criminali, il saldo delle imprese negli ultimi anni è sicuramente positivo. Da un lato, calano le imprese nel settore delle costruzioni e in generale nel manifatturiero; segno, questo, di più estesi processi di deindustrializzazione, come ad esempio mostra il bilancio del Contratto d’area di Manfredonia (dalle 70 iniziative imprenditoriali con 1.700 addetti di circa 15 anni fa alle 20 con 364 dipendenti nel 2016). Dall’altro, invece, reggono e spesso crescono vistosamente quelle dell’agroalimentare, le altre attive nei servizi alle imprese, nel commercio e nel turismo, comparto, quest’ultimo, che, in parte, ha beneficiato di finanziamenti del Contratto d’area per il porto turistico di Manfredonia, mentre buona vitalità mostrano le imprese femminili (soprattutto per i servizi alle persone).

Un quadro in chiaroscuro, in cui non mancano segnali positivi per il futuro, che potranno concretizzarsi, se si risolveranno gli accennati problemi infrastrutturali, se si estenderà la cultura della legalità in ampie parti del territorio, deturpato anche da non marginali fenomeni di abusivismo edilizio e da discariche clandestine; se si valorizzeranno le risorse culturali e ambientali, cui molto gioverebbero anche il completamento della filiera della formazione e l’attivazione di modalità di gestione dei siti meno volontaristiche e più correttamente imprenditoriali; se cresceranno i consorzi di imprese e la cooperazione, ancora molto deboli; se migliorerà la qualità delle classi dirigenti, sempre in bilico tra lamentazione da marginalità e logiche di breve periodo.

«Vaste programme», per dirla con De Gaulle. Tuttavia, non ci sono scorciatoie. Per fortuna non mancano i potenziali protagonisti di questa svolta: pezzi del mondo imprenditoriale, più o meno giovane, che puntano sulla qualità e non sulla semplice compressione del costo del lavoro – anche con il ricorso al caporalato –, settori della giovane università impegnati nella ricerca al servizio del territorio, amministratori locali stanchi della mediazione politica tradizionale, nonché associazioni e fondazioni impegnate non retoricamente nella difesa della cultura della legalità e nella promozione delle risorse materiali e immateriali.

Ma non c’è molto tempo per una provincia da molti decenni in bilico tra irrimediabile declino e valorizzazione del suo patrimonio, territoriale e culturale.

 

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