Parafrasando il titolo di un recente volume di Anna Giunta e Salvatore Rossi (Che cosa sa fare l'Italia, Laterza, 2017), la domanda da porsi è: che cosa sa fare il Friuli?

Il modello di sviluppo che ha consentito agli abitanti di questa terra di affrancarsi da una lunga storia di «sotàns» (termine friulano che sta per sottomessi, subalterni) ha vari ingredienti. In parte il Friuli è una propaggine del «mitico Nord Est», con il quale ha condiviso un percorso fatto di distretti, imprenditorialità diffusa, piccole aziende specializzate soprattutto nella manifattura low cost. D’altra parte è marca di confine (e non un confine qualsiasi: qui passava la cortina di ferro, e non a caso qui era di stanza la fetta principale delle forze armate). Un confine giunto, di punto in bianco, a interrompere un secolare e fecondo rapporto con la Mitteleuropa austroungarica, ma anche a generare quel po’ di ricchezza che dall’indotto del confine si traeva.

A questo si deve – più che a una diversità antropologica delle genti friulane – il riconoscimento dello Statuto speciale. Un’autonomia che si è concretizzata, in modo particolare, nella disponibilità di leve di politica industriale non concesse alle regioni ordinarie. Il terremoto del 1976 fu uno spartiacque: una tragedia dalla quale tuttavia l’orgoglio di un popolo trasse linfa e alimento. Nelle tende in cui, gomito a gomito, imprenditori e operai condivisero quei momenti si cementò un «capitale sociale» i cui benefici influssi sul boom dei decenni seguenti non sono ancora stati sufficientemente indagati. Come poco indagati sono, del resto, gli effetti macroeconomici della ricostruzione.

>> Il Friuli: i principali dati socio-demografici (Pordenone, Udine)

Con la caduta del muro di Berlino, molti hanno pronosticato al Friuli un destino di successi economici derivanti dalla ritrovata collocazione geopolitica «al centro dell’Europa». Le infrastrutture gravitanti sui nuovi «corridoi europei» avrebbero permesso un veloce collegamento con il cuore pulsante dell’economia continentale, agganciandone i destini. Un quarto di secolo dopo, molti di questi auspici attendono ancora di essere realizzati. In parte perché i «corridoi» rimangono ancora in buona parte sulla carta. Con fatica si è riusciti finalmente ad avviare il completamento della terza corsia dell’autostrada A4, peraltro oggi paralizzata dal traffico; ma l’alta velocità ferroviaria resta un miraggio lontano, lo scalo aeroportuale vivacchia all’ombra di quello veneziano (verso il quale non esiste dal Friuli neppure uno straccio di trasporto pubblico). La banda larga latita.

La rinascita del porto di Trieste (che in dieci anni è cresciuto del 24%, superando Genova e diventando il primo porto italiano per quantità movimentate) non viene assecondata, ma semmai frenata dal mancato contemporaneo sviluppo della logistica retro-portuale. E soprattutto non si riverbera come dovrebbe e potrebbe sull’economia del territorio: i container in transito solo in piccola parte si fermano. Nel frattempo, la slovena Capodistria intercetta flussi crescenti diretti verso il centro Europa e, grazie a un piano coordinato di investimenti che bypassano il territorio italiano, si candida a sostituire Trieste come terminale del corridoio «Baltico-Adriatico». Ma, invece che l’auspicata collaborazione, in grado di trarre profitto dalla complementarietà tra i due scali, c’è stata finora soprattutto una concorrenza, funzionale alle strategie dei grandi operatori della logistica. Di collegamenti ferroviari si parla senza costrutto da oltre un decennio.

In parte perché il rimescolamento geopolitico ha spiazzato gli artefici del «made in Friuli», per le sue caratteristiche più esposto alla concorrenza di chi il low cost lo faceva ancora meglio. La specialità ha funzionato più come ammortizzatore, come forza della conservazione, che come politica in grado di guidare un rilancio. La grande crisi ha colpito il Friuli più duramente del resto del Nord Est, e anche la ripresa, che pure è in corso, è iniziata più tardi e con meno vigore. A trainarla, più che i distretti sempre più spopolati, sono la cantieristica, nella quale le filiere del mobile hanno trovato uno sbocco insperato; le medie imprese, che sono riuscite a fare il salto verso i mercati mondiali, anche qui seguendo l’esempio dei «campioncini» del vicino Veneto, ma – apparentemente – in tono minore; e il turismo, che certo deve molto al crollo delle mete esotiche, ma che ci ha messo anche del suo, a cominciare da piccoli gioielli come la pista ciclabile «Alpe Adria» e quell’autentico miracolo creato a Illegio, nel cuore della Carnia, divenuto centro di mostre d’arte di richiamo mondiale grazie all’intraprendenza di un giovane parroco visionario e appassionato.

In pochi anni, l’economia tedesca ha riorientato le sue catene di subfornitura verso l’Europa centro-orientale, dove ha trovato un terreno fertile, grazie ai vantaggi offerti dal minore costo del lavoro, da un fisco meno rapace, dalla qualità della formazione tecnica, da un ambiente istituzionale più amico di chi fa impresa, e forse, chissà, dal riallacciarsi di antichi legami. Fatto sta che, a osservare la carta geografica sempre più intessuta di trame e traffici umani e commerciali, sembra di rivedere gli «imperi centrali» di un secolo fa.

Il Friuli non ha ancora saputo cogliere quest’opportunità. Incerto se guardare a Ovest – verso quella che Paolo Perulli ha definito «regione-A4» – o verso la rinascente Mitteleuropa, nel dubbio celebra il quarantennale del terremoto guardandosi allo specchio: e si vede terra ricca di bellezze naturali, di grandi vini e di chef stellati, celebra con giusto orgoglio (e un po’ di retorica) la propria storia di popolo «salt, onest, lavorador» rinato dalla tragedia grazie alla tenacia e al duro lavoro. Coltiva sogni autarchici, si riempie di cartelli stradali bilingui in omaggio a un friulanismo artificiale e intellettualistico. Quanto al «capitale sociale» cresciuto sotto le tende, non è chiaro se e in che misura la generazione successiva l’abbia saputo coltivare e riprodurre.

Non serve a molto essere al centro di una rete di infrastrutture, se non si trova il modo di coltivare un vantaggio competitivo. Diciamocela tutta, fino in fondo: «al centro dell’Europa» il Friuli c’è stato da sempre; ma tolti alcuni momenti fortunati (l’Aquileia romana, la Trieste asburgica e poco altro) questa collocazione è servita ai friulani soprattutto per essere calpestati dagli zoccoli dei cavalli dei tanti eserciti in transito, che non avevano nemmeno grande interesse a fermarsi (il che forse è stata una fortuna, come nei Turcs tal Friul di Pasolini: ma anche un segno di debolezza e marginalità).

Se gli zoccoli ferrati dei cavalli diventano quelli cementati dei piloni autostradali o degli elettrodotti, non fa poi grande differenza: il rischio è semmai che la dotazione infrastrutturale acceleri il declino, facilitando chi se ne vuole andare più di chi intende arrivare. A meno che il territorio non sappia ritrovare competenze distintive e una forza di attrazione, sia per ridare slancio a chi è rimasto e ha saputo attraversare la crisi uscendone rafforzato, sia per invogliare nuovi insediamenti.

È un segnale preoccupante che, nonostante gli indubbi vantaggi che derivano dall’opportunità di manovrare la politica industriale, il Friuli rimanga periferia del Nord Est, meno attrattivo e meno dinamico del vicino Veneto. Che, per fare solo un esempio, la Confindustria pordenonese guardi con più simpatia ad alleanze con i cugini veneti che con gli omologhi udinesi e giuliani. Altrettanto preoccupante è che le vicine regioni carinziane e slovene, più che come possibili partner, vengano viste ancora soprattutto concorrenti, come mete di delocalizzazione.

Il Friuli è ancora in tempo a godere dei vantaggi del ritrovarsi «al centro»: ma non può sperare che questi si materializzino da soli. Deve imparare a fare da cerniera tra due mondi che sono ancora scollati. L’alternativa è continuare a essere periferia di entrambi, certo non più povera come un tempo, ma, temo, non meno subalterna.

 

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