Uno strano fenomeno di rigenerazione urbana spinta dal basso e gestita in maniera deregolamentata dalle istituzioni attraverso cui si immaginano delle splendide e progressive sorti future del capoluogo campano: è il ritornello di «Napoli città turistica». Prendiamo la stazione Toledo della linea 1 della metropolitana cittadina. La fermata, opera dell’architetto catalano Oscar Tusquets, è un capolavoro che invita nei meandri del sottosuolo attraversando gallerie adornate da sfumature cangianti delle tinte che dalla terra finiscono in mare. Ma è meta di turisti più che di passeggeri, visti i tempi di percorrenza e frequenza dei treni a dir poco imbarazzanti.

La costruzione della nuova linea è stata una delle poche opere infrastrutturali realizzate nei passati trent’anni, e la sua vicenda riassume molte delle contraddizioni e aporie della città. Il suo tracciato è un viatico unico per scoprire zone della città inaspettate e poco frequentate dai flussi del turismo. Tocca villaggi divenuti quartieri, orti e campi trasformati in distese di cemento, colline scomparse, voragini, epidemie.

Il 22 dicembre del 1977, il primo sindaco del Pci Maurizio Valenzi poggia la prima pietra del cantiere di Piazza Medaglie d’Oro della linea 1. Quattro anni prima, nel settembre del 1973, la città aveva vissuto l’ultima epidemia di colera in Europa occidentale, causata, più che dal consumo di mitili crudi, dalle disastrose condizioni igieniche dei quartieri popolari del centro antico. La nuova metropolitana era parte di un progetto di riqualificazione urbana di cui la giunta Valenzi era interprete, ma, a differenza del Risanamento seguito alla devastante epidemia del 1885, doveva fare i conti con una città esplosa per dimensioni e popolazione, segnata dalla speculazione edilizia e dall’urbanistica deregolamentata.

Seguendo la metropolitana incamminiamoci attraverso i nuovi quartieri (quelli delle strategie contro l’architettura), la Napoli collinare che per secoli è stata il più bel giardino con affaccio a mare d’Europa.

Prima tappa è la stazione Medaglie d’Oro dove appunto iniziarono i lavori, a tutt’oggi non completati. La piazza fu progettata nell’ambito del Risanamento secondo criteri haussmanniani, ma venne ultimata nel 1930 diventando uno dei primi insediamenti urbani dell’ancora rurale Vomero. In quegli anni il villaggio agricolo diventò parte integrante del tessuto cittadino. Oggi la piazza è circondata da ogni lato da budelli che si snodano tra palazzi in cemento armato costruiti tra i primi anni Cinquanta e la metà dei Settanta. Si tratta di teorie di stabili che, senza soluzione di continuità, si inerpicano verso la zona dell’Arenella e le colline sovrastanti, divenute zona ospedaliera. Resiste un unico spazio verde – i giardinetti di Via Ruoppolo – ormai solo sfogo per famiglie e anziani all’interno del panorama di cubature dall’estetica modernista. Le automobili la fanno da padrone.

Siamo in una zona del Vomero dove convivono ancora gruppi sociali eterogenei, piccola e media borghesia commerciale, lavoratori dei servizi, studenti, un residuo di proletariato marginale. Poco distante c’è la zona di Antignano, originario borgo contadino e ancora sede di un vivace mercato rionale quotidiano. Una miscellanea particolare di elementi sociali che ha fatto della zona di Piazza Medaglie d’Oro, negli anni Settanta, il luogo di incontro dell’Autonomia operaia napoletana e che ospitava una delle sezioni più combattive del Pci: il circolo Che Guevara. 

Le medaglie d’oro sono quelle conferite ai martiri di Napoli che dal 27 al 30 settembre 1943 animarono l’insurrezione popolare contro le truppe nazifasciste e fecero di Napoli la prima città italiana a liberarsi. E proprio a quei giorni del ‘43 è dedicata la stazione successiva, Quattro Giornate, che combacia con i luoghi dove l’insurrezione ebbe inizio. Qui troviamo lo stadio Collana, oggi al centro di una surreale disputa interistituzionale che ne blocca le attività, lasciandolo inattivo e praticamente in rovina.

Lo stadio e la zona circostante furono realizzati durante il regime fascista, che edificò tra il 1925 e il 1935 una serie di insediamenti di case popolari destinati ai lavoratori della pubblica amministrazione e altri comparti dello Stato. Via Simone Martini è una delle poche strade abbastanza ampie e spaziose del quartiere, così come il susseguirsi di parchi residenziali risalenti al Ventennio che ospitano stabili intervallati ad aree comuni e accenni di giardini (poi trasformati in posti auto condominiali). Costruzioni circondate dai campi, soprattutto di broccoli, che si perdevano a vista d’occhio e da cui si vedeva il mare. L’incubo urbanistico realizzato nel dopoguerra offre oggi ben altro scenario.

Da un lato infatti, da piazza Quattro Giornate, si arriva in via Francesco Cilea, un singolare boulevard ai cui lati sono stati costruiti edifici alti più del doppio dell’altezza consentita dalle regole urbanistiche vigenti. All’estremità meridionale di via Cilea troviamo un palazzo immenso (il palazzo Fiart) che incombe sulla pianura flegrea sottostante e anche la via San Domenico (dove è nato e cresciuto il premio oscar Paolo Sorrentino). È una discesa ripidissima e stretta di palazzi squadrati e sproporzionati che termina con affaccio sulla Tangenziale, la strada a scorrimento rapido costruita negli anni Sessanta come tributo all’incalzante motorizzazione nazionale.

Giusto alle spalle di via Cilea ecco via Belvedere, i cui casali affacciati sul Golfo sono stati sostituiti da uno dei tre scempi edilizi regalati alla città dal costruttore Mario Ottieri. L’agglomerato di palazzi che ha preso il nome di «muraglia cinese» fu edificato alla fine degli anni Cinquanta e oltre a rappresentare uno sfregio indelebile alla linea del paesaggio costiero e cittadino, è stato la causa di una situazione di dissesto idrogeologico descritto da Eleonora Puntillo. Questa zona, destinata dal piano regolatore del 1939 dell’architetto Luigi Piccinato a suoli agricoli, cambiò repentinamente destinazione d’uso grazie a un ritocco cromatico delle mappe, un «furto con destrezza urbanistico» ben raccontato da Francesco Rosi nel film Mani sulla città.

Dall’altro lato di piazza Quattro Giornate, percorrendo a ritroso via Simone Martini ci addentriamo verso via Pigna e via Case Puntellate, così chiamata a causa di alcuni stabili dalle fondamenta scoperte che sono vere e proprie palafitte di cemento armato. Il tragitto curvilineo termina nel quartiere flegreo di Soccavo. In queste strade il genius loci della speculazione ha riproposto una versione allucinata della topografia cittadina: veri e propri vicoli e anfratti creati tra palazzi moderni addossati l’uno all’altro. Come una nemesi moderna in questa zona è stata riproposta quella prossimità e densità abitativa tipica dei quartieri popolari del centro antico, gli stessi da cui un accennato ceto medio voleva allontanarsi. Soltanto che cavalcavia e svincoli stradali, ponti e sopraelevate interrompono la sequenza edilizia dando vita a vuoti urbani improvvisi dove una vegetazione selvaggia riesce a incistarsi tra asfalto e cemento armato. Ci muoviamo in una miriade di appartamenti destinati tanto al ceto medio quanto a una piccola borghesia, progettati rispondendo a criteri «moderni». Un alveare urbano a cui non corrispose una infrastruttura fognaria capace di assorbire la nuova mole di scarichi di acque reflue. Da qui il micidiale impatto ambientale per i quartieri a valle e per l’intero spazio acqueo del Golfo di Napoli.

Da piazza Quattro Giornate il tracciato del treno è alquanto contorto. Prima di risalire verso la zona collinare dei Colli Aminei, ci costringe ad una tappa a Piazza Vanvitelli che è stata al centro della prima urbanizzazione del villaggio del Vomero avvenuta al principio del Novecento. Circondata da eleganti palazzi in stile liberty, piazza Vanvitelli è alle pendici dell’apice collinare dove si adagiano gli storici Castel Sant’Elmo e la certosa di San Martino. Poco distante si trova la panoramica via Palizzi luogo di residenza di professionisti e benestanti, e il Liceo classico Sannazaro fucina di una parte della classe dirigente locale. Si tratta di un primo esempio di quartiere borghese dove nella Belle Époque si stabilirono notabili e artisti, dando vita a una nuova concentrazione sociale che sarà alla base del futuro insediamento della media e piccola borghesia del dopoguerra. Sul quadrilatero della piazza, a poca distanza insistono le tre maggiori funicolari, costruite a cavallo tra Otto e Novecento, che collegano il Vomero con il quartiere popolare di Montesanto, con l’elegante piazza Amedeo nel quartiere di Chiaia e con il centro cittadino di via Toledo. È il nucleo borghese del Vomero, una borghesia che negli anni è diventata sempre più spuria, tanto che la vicina Piazzetta Fuga, fin dagli anni Sessanta, è diventata il ritrovo di militanti di estrema destra e del Fronte della gioventù.

Dalla stazione Vanvitelli intraprendiamo la salita verso i Colli Aminei. Passiamo per le fermate di Montedonzelli, Rione Alto e Policlinico. In superficie il percorso vede l’estendersi della nemesi urbanistica realizzata tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta. Un continuum di palazzi si inerpica per la collina seguendo strade curvilinee e occupando ogni metro quadro di territorio. Camminando attraverso il Rione alto, si può vivere una sensazione di spaesamento osservando i palazzi svettare verso un cielo sempre più invisibile. I raggi del sole rimbalzano sugli stabili e non riescono a raggiungere l’asfalto e i marciapiedi sottostanti. All’inizio dei Settanta un’ennesima deroga al piano regolatore permise a costruttori come l’ingegnere Corrado Ferlaino (poi celebre come presidente del Napoli di Maradona) di costruire edilizia residenziale ben oltre il limite regolamentare di 500 metri di distanza dagli ospedali. Infatti il Rione Alto circonda lo storico nosocomio Cardarelli, l’Istituto Oncologico Pascale e confina direttamente con l’enorme complesso universitario del Nuovo Policlinico. La costruzione di quest’ultimo determinò una fase ulteriore di dissesto idrogeologico che portò ad una nuova sequenza di crolli, smottamenti, deviazioni artificiali e approssimate dei percorsi delle acque pluviali con conseguenze disastrose per gli equilibri del sottosuolo.

I Colli Aminei, ultima tappa del nostro breve viaggio collinare, non si distinguono dal panorama, una distesa di parchi residenziali ha preso il posto delle colline utilizzate come luogo di villeggiatura salubre. Il viale omonimo arriva fino al confine con l’ultimo polmone verde della città, il Real Bosco di Capodimonte, dove è ospitato uno dei musei più importanti della città che non è servito, però, dal servizio metropolitano.

Il percorso che si è provato a raccontare ricalca il primo tratto della linea 1 della metropolitana di Napoli inaugurato nel 1993, sedici anni dopo la posa della prima pietra. Pochi mesi più tardi il Vomero fu collegato alle stazioni delle periferie Scampia e Piscinola. In breve tempo molti giovani (e meno giovani) iniziarono a frequentare i quartieri collinari suscitando una serie complessa di conflitti e di commenti indignati. Il borghese si sentì invaso e messo a rischio dall’imperversare di elementi estranei che, dal canto loro, iniziavano a scoprire un’altra città, scintillante e piena di vetrine.

A oggi la linea 1 collega alla città l’ipernarrata periferia di Scampia, ma rimane da completare il tratto finale del progetto del 1977. Il Vomero e le altre zone attraversate restano poco frequentate dalle scienze umane, così come dagli scrittori. Una parte un po’ nebulosa della città, molteplice, dal punto di vista sociale e culturale ma tuttavia separata dalla città storica. Un elemento urbano recente dai tratti quasi ballardiani, la cui edificazione, al contrario, ha molto a che vedere con l’insieme della storia di Napoli e del suo presente.

 

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