Nell’ultimo mezzo secolo, il Salento ha tentato più volte di scrollarsi di dosso la sua storica marginalità. Tuttavia il profumo dello sviluppo lo ha soltanto annusato. Per assaporarne il gusto pieno avrebbe dovuto mescolare e amalgamare le diverse essenze che lo compongono.

Ma nel Salento il sogno di uno sviluppo diversificato, o polifonico come direbbe Hirschman, non si è mai realizzato. La necessità di mettere a valore tutte le risorse disponibili per uscire dalla propria arretratezza non è mai stata realmente avvertita in questa parte del Mezzogiorno. Né gli attori economici, né le istituzioni politiche ci sono mai arrivati. Di certo mai in tempo utile.

Esauritasi la grande migrazione verso il triangolo industriale e l’Europa, nell’ultimo ventennio del secolo scorso il territorio salentino ha registrato una diffusa crescita dell’industria manifatturiera: dalle confezioni alle calzature, dalle tessiture ai cravattifici è stato tutto un fiorire di sistemi produttivi locali costituiti in grandissima parte da imprese di piccole dimensioni, operanti quasi sempre con contratti di sub-fornitura per committenti esterni. La forza del reparto cosiddetto Tac (Tessile/abbigliamento/calzature) non era certo legata all’innovazione – di prodotto, di processo e organizzativa - quanto piuttosto ai vantaggi competitivi di prezzo, dei prodotti e del lavoro (declinato, quest’ultimo, in tutte le diverse forme di irregolarità). Tuttavia, per un lungo periodo questo settore è stato in grado di sostenere i livelli occupazionali e quindi un relativo benessere economico delle famiglie salentine, integrando i redditi derivanti dall’impiego pubblico, dai riverberi occupazionali dei lavoratori pendolari delle grandi imprese nei poli di sviluppo di Lecce, di Brindisi e di Taranto e da diffuse attività agricole di sussistenza. È stato questo modello ad alimentare in quegli anni l’edilizia privata (dall’abitazione in proprietà nei centri urbani alla diffusione delle seconde case, spesso abusive, sul litorale), la diffusione dei consumi e la moltiplicazione dei centri commerciali.

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In seguito, all’inizio del nuovo millennio, il Tac è stato rapidamente spazzato via e, nel giro di pochi anni, decine di aree industriali, realizzate il più delle volte con inconsueta rapidità e con discutibili criteri urbanistici e ambientali, si sono letteralmente svuotate lasciando sul campo capannoni sgombri e strade deserte. Ad accomunare queste situazioni di crisi è stata, com’è noto, la globalizzazione e in particolare la competitività delle produzioni asiatiche. L’unica reazione a questa bufera competitiva è stata quella, affannosamente difensiva, della delocalizzazione della produzione nei Balcani (principalmente in Albania e Romania). Infatti, quando i committenti esterni hanno scelto di far realizzare le loro produzioni direttamente in Cina e in altri Paesi dell’Estremo Oriente, per gran parte di queste imprese il declino e la chiusura sono stati inevitabili.

Tuttavia, se è vero che la competizione globale e la concorrenza asiatica sono stati un elemento dirompente di crisi, è altrettanto certo che al declino dell’industria leggera del Salento hanno contribuito, e non poco, la debolezza della classe imprenditoriale e la miopia delle istituzioni pubbliche nazionali e locali. In effetti, tutti sapevano che lo tsunami cinese sarebbe arrivato ma, come nel celebre romanzo di Garcia Marquez, nessuno è stato capace di muovere un dito per scongiurarne i disastri.

Nel solo modo possibile, anche se per nulla garantito, che non poteva consistere nel tentativo di mantenere inalterati i fattori di competizione basati sulla compressione del costo del lavoro, ma nell’introdurre nel sistema elementi di innovazione capaci di trasferire la competizione dal prezzo alla qualità dei prodotti. Questa sarebbe stata una reazione vera. Invece, tanto gli imprenditori quanto le istituzioni pubbliche sono rimasti intrappolati nei classici meccanismi di dipendenza da un percorso tecnologicamente non competitivo (path dependence/lock-in). Sono mancate le risorse cognitive, prima che tecniche e finanziarie, per esplorare strade innovative, discostandosi dai tradizionali sentieri produttivi.

Nello stesso tempo la capacità di assorbimento occupazionale del settore pubblico e delle grandi imprese cominciava a venir meno, mentre solo in quel frangente di crisi, all’inizio del nuovo millennio, il turismo e l’agroalimentare hanno cominciato a dare segni di vitalità e di dinamismo. Ma la polifonia dello sviluppo restava sempre un miraggio.

Da allora l’offerta turistica salentina ha percorso un bel pezzo di strada. Tuttavia un modello turistico nel Salento non si è ancora consolidato: con l’eccezione della città di Lecce e di qualche altra località della provincia (Melpignano, Novoli), il turismo culturale stenta a decollare; l’offerta enogastronomica è ancora un prodotto di nicchia mentre gli altri prodotti turistici (nautico, naturalistico, termale…) sono ancora lontani dal costituire dei driver in grado di caratterizzare l’offerta turistica del territorio salentino, incrementando il turismo in bassa stagione e agevolandone il processo di destagionalizzazione. Insomma, il sistema dell’ospitalità salentina è ancor oggi marcatamente balneare ed estivo.

Da almeno un decennio il turismo straniero, che rappresenta il fattore più rilevante della destagionalizzazione dei flussi, registra una incremento costante, anche attraverso l’acquisto di abitazioni, soprattutto nei piccoli comuni dell’entroterra, con conseguenti ricadute positive sull’attività edilizia, sull’artigianato e sul commercio locali. Tuttavia, questa crescita è troppo lenta e i visitatori stranieri rimangono una componente sensibilmente sottodimensionata rispetto alla media nazionale e alle altre regioni turistiche del Mezzogiorno. In provincia di Lecce, le presenze straniere sono circa un quinto del totale: un dato leggermente inferiore alla media regionale, ma sideralmente lontano dalla quota nazionale di quasi il 50%. In Italia soltanto quattro piccole regioni (Marche, Abruzzo, Basilicata e Molise) registrano percentuali di presenze straniere inferiori a quella pugliese. Per contro, nel Mezzogiorno i picchi più elevati si hanno in Sicilia, Sardegna e Campania (46-48%), cioè in quelle regioni che nell’ultimo decennio la Puglia si proponeva, se non di raggiungere, almeno di avvicinare dal punto di vista turistico.

I fattori che determinano una simile situazione sono molteplici: dalla insufficiente diversificazione dell’offerta alla scarsa professionalizzazione degli operatori del settore, dalla carente valorizzazione delle risorse naturali e culturali del territorio all’inadeguatezza complessiva delle infrastrutture pubbliche. Così, mentre da un lato si progettano impianti che rischiano di compromettere le risorse naturalistiche e paesaggistiche che costituiscono i pilastri sui quali poggia il turismo salentino (come la superstrada da Maglie a Leuca o il gasdotto Tap che arriva a San Foca, una delle località pugliesi a più elevata attrattività turistica), dall’altro restano inutilizzate da decenni reti di trasporto collettivo di grande potenzialità per lo sviluppo del turismo non meno che per la mobilità dei residenti (come le Ferrovie Sud-Est).

A difendere il territorio salentino da interventi dissennati che rischiano di tagliare il ramo sul quale il Salento è seduto, non c’è più, ovviamente e come dappertutto, la politica tradizionale, ma restano, per fortuna, alcuni sindaci e una società civile appassionata e vivace sia sul fronte culturale che su quello politico; la stessa  che aveva fertilizzato la mitica stagione vendoliana della “primavera pugliese” e che oggi appare lontana da quelle istituzioni che nel recente passato ne avevano sostenuto i percorsi.

Com’è noto, nel turismo alla parte emersa corrisponde una parte sommersa che nel Salento appare particolarmente significativa. Ovviamente, anche quest’ultima sostiene il reddito delle famiglie (si pensi all’affitto in nero delle abitazioni) e l’occupazione, anche se il nuovo lavoro nei servizi turistici assume generalmente forme ancora più instabili e meno retribuite del vecchio lavoro nell’industria del Tac.

Per il resto la disoccupazione e le molteplici forme di occupazione precaria sono la regola e il Salento ha ripreso a essere al tempo stesso terra di partenza e di arrivo di migranti. Le sue coste continuano ad accogliere i barconi dei disperati del Sud del mondo, mentre a partire non sono soltanto giovani scolarizzati, ma anche schiere crescenti di ragazzi scarsamente qualificati che con il loro lavoro alimentano l’industria dell’ospitalità di molte capitali europee.

Oltre che dal turismo e dalla nuova agricoltura, qualche elemento di speranza per il futuro del Salento sembra provenire dal ritorno delle commesse produttive da parte di grossi gruppi industriali del Tac. Si tratta di un fenomeno nuovo e interessante (che gli anglo-sassoni chiamano re-shoring), di dimensioni ancora limitate, difficilmente quantificabile, ma certamente in crescita e, come al solito, ignorato tanto dalle associazioni imprenditoriali quanto dalle istituzioni pubbliche locali. Tra i fattori che alimentano questo fenomeno uno dei più rilevanti sembra essere la contrazione dei volumi produttivi indotti dalla crisi economica globale e, al tempo stesso, lo slittamento delle produzioni verso la fascia medio-alta del mercato. Dunque, la loro ricollocazione nel Salento si spiegherebbe soprattutto con la ricerca di una migliore qualità produttiva, che le maestranze salentine sanno certamente realizzare, ma che ancora una volta è determinata da forze esterne e non da una scelta strategica e consapevole dei soggetti locali. I volumi produttivi sono ovviamente inferiori, le commesse incerte e dunque anche in questo caso l’occupazione è limitata e altamente precaria. Ma, al tempo stesso, il re-shoring costituisce una speranza, e forse un’opportunità per la riqualificazione del tessuto industriale salentino. Insieme a turismo, ambiente, cultura e produzione agro-alimentare, esso potrebbe ridestare quell’aspirazione alla polifonia dello sviluppo spesso vagheggiata e mai concretamente perseguita.

 

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