Orvieto e Gubbio sono due quinte teatrali. Cittadine eleganti e piene di fascino, rappresentano la capacità dell’Italia minore di richiamare e accogliere i turisti che raggiungono la rupe o si fermano all’ombra di Palazzo Ducale.

Lo spettacolo che le «compagnie» del Sud Ovest e del Nord Est dell’Umbria portano in scena, però, è quello tipico delle aree interne del Paese: spopolamento, riduzione dei servizi essenziali, abbandono della terra;a dispetto di una riconosciuta vocazione agricola della Regione da tutti considerata la più «verde» d’Italia. Regione che si può raccontare, nei suoi chiaroscuri, a partire dalle aree che fanno da cerniera tra l’Umbria, il Lazio e la Toscana (a Sud Ovest) e tra l’Umbria e le Marche (a Nord Est).

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Cerniera a «Sud Ovest». Il Sud Ovest dell’Umbria per la Strategia nazionale aree interne è un’area di venti Comuni (Città della Pieve, Monteleone di Orvieto, Montegabbione, Parrano, San Venanzo, Ficulle, Fabro, Allerona, Castel Viscardo, Castel Giorgio, Orvieto, Porano, Baschi, Montecchio, Guardea, Alviano, Lugnano in Teverina, Attigliano, Giove, Penna in Teverina) e gode di una buona posizione geografica. È attraversata dall’A1, perciò nomi come Attigliano o Giove (oltre a Orvieto) suonano familiari. La popolazione residente nel 2011 era pari a 62.532 abitanti (nel 2016 erano 61.397) con una variazione positiva nel decennio 2000-2011 (3,19%), ma comunque inferiore alla media aree interne della Regione Umbria (5,61%). Il tasso di popolazione over 65 al 2011 è del 26,05%, superiore sia alla media regionale (24,56%) che nazionale (21,2%), mentre la distanza media in minuti dei Comuni più periferici dal centro maggiore più vicino è di 40,1. È rilevante la crescita dei nuovi abitanti provenienti da Paesi esteri (8,7% nel 2011 e 9,4% nel 2016): un segnale positivo che si riscontra in tutti i Comuni.

L’area, apparentemente poco omogenea, è composta da tre distinti «blocchi»: il primo costituito da Città della Pieve, Montegabbione e San Venanzo, a Nord, che gravitano su Perugia; il secondo è rappresentato da Orvieto, con un tessuto imprenditoriale differenziato e in alcuni settori anche fortemente innovativo (Itc, Tlc, meccanica di precisione), ha un bacino di riferimento attorno al quale gravitano dieci Comuni, da Fabro a Guardea; infine, l’area Teverina della bassa Umbria (al confine con l’alto Lazio, da Alviano a Penna in Teverina) che è caratterizzata dalla presenza del fiume Tevere e, per questo, è considerata un corridoio ecologico per l’intera Regione.

L’omogeneità dell’area è un prodotto storico-geografico, ma anche culturale e politico. In ognuna di queste porzioni di territorio è stata (ed è) rilevante la presenza dei centri vicini, con i quali i piccoli Comuni (Parrano, il più piccolo dell’area, conta 534 abitanti nel 2016; erano 590 nel 2011) condividono l’evoluzione economica e demografica. Montegabbione (Comune di 1.216 abitanti nel 2016, vicino Città della Pieve) è considerata la montagna piccola, con problemi diversi da Orvieto. Orvieto, con una discreta stabilità demografica (gli abitanti nel 2016 sono 20.630, nel 2011 erano 21.064), pur non essendo un baricentro economico, è sempre stata un punto di riferimento per la formazione culturale dei ragazzi di questa zona. La bassa Umbria, invece, è l’area che ha attirato negli anni Ottanta «residenzialità colte», ma sganciate dal territorio.

La presenza diffusa di beni culturali-archeologici e la percezione del valore del paesaggio agrario tradizionale accomuna l’intera area. Con ben 28 luoghi della cultura statali e non statali, l’area si caratterizza come il comprensorio umbro in grado di far registrare il maggior numero di arrivi di turisti, in particolare stranieri: nel 2012 i visitatori per i luoghi del patrimonio culturale sono stati 321.185, la metà circa delle presenze delle aree interne dell’Umbria e un quinto di tutte quelle regionali.

La ricchezza del tessuto naturalistico riflette il claim «Umbria cuore verde d’Italia», nonostante le forti identità locali abbiano ritardato una visione comune e un dialogo costruttivo nella valorizzazione e gestione dei beni culturali. Il turismo potrebbe essere un importante bacino occupazionale, ma l’occupazione che produce è ancora precaria, spesso mal pagata e poco specializzata.

Tutta l’area ha condiviso, dal dopoguerra in avanti, un lungo processo di depauperamento dei mestieri della tradizione artigiana e delle imprese agricole. Il fiorire di molte piccole imprese artigiane, spesso legate al ciclo dell’edilizia, è riuscito in maniera parziale ad arrestare l’esodo di persone e famiglie. E non è un caso se i settori in cui si registra la maggior resistenza e capacità di tenuta imprenditoriale coincidono con un «saper fare» locale.

La crescita dei piccoli centri urbani, oltre a non aver stabilizzato il reddito della popolazione, ha causato un costo economico-ambientale in termini di aumento della vulnerabilità e del rischio idrogeologico. Un paesaggio verde ma anche dissestato, colpito dall’alluvione del 2012 che ha causato l’allagamento di molti centri abitati, l’evacuazione di molte famiglie e la chiusura di 39 scuole durante l’emergenza.

A caratterizzare il paesaggio locale è la sostanziale persistenza di una cultura agricola e il mantenimento del sistema policentrico dei borghi storici. L’abbandono del territorio e delle piccole aziende agricole (in dieci anni, dal 2001 al 2010, la perdita di Sau, Superficie agricola utilizzata, è del 25,8%, mentre il numero dei giovani agricoltori è in calo del 54%) non hanno intaccato quella che è considerata una forte vocazione economica e di cura del paesaggio.

Oltre ai beni culturali e al paesaggio rurale storico, la produzione agroalimentare di qualità (con un’elevata presenza di produzioni certificate e biologiche) e i nuovi ingressi in agricoltura sono un aspetto emergente dell’area. I nuovi agricoltori sono quarantenni, vengono spesso da fuori e recuperano nicchie produttive di qualità a volte dimenticate (nell’area dell’Orvietano e della Teverina si sta sviluppando un’attenzione sui grani antichi) o ne inventano di nuove (è il caso, per esempio, di aziende che producono formaggio con latte di capra). Sono nell’area da dieci anni, sono innovativi, vivono il territorio, domandano formazione e la erogano.

Sono esperienze imprenditoriali che hanno introdotto un nuovo modo di fare agricoltura, valorizzando il legame con la storia del territorio e introducendo nuovi metodi (biologico, biodinamico, permacultura, coltura sinergica) in risposta a precise domande di mercato. Questa «effervescenza d’importazione» ha contagiato aziende agricole locali, mostrando quanto l’ingresso di visioni «non convenzionali» in un tessuto sociale e produttivo possa innescare meccanismi di emulazione e di sviluppo.

Un altro elemento di interesse, e di possibile innovazione, riguarda la vitalità dei borghi storici, le connessioni e i legami con quelli più grandi, e la permanenza di abitanti che possano prendersene cura. Negli anni Novanta i comuni dell’Orvietano e dell’Amerino, erano considerati «luoghi del silenzio», esempio di «buon vivere». Da decenni, infatti, chi vuole sfuggire dal caos delle grandi città (Roma e Firenze), viene qui. I primi, colti e benestanti, sono stati i così detti «intellettuali delle colline»: cercavano un rifugio ma crearono un’enclave poco interessata alla vita dei piccoli borghi e all’interazione con i loro abitanti. Erano le stesse modalità di uso dei luoghi (recinzioni o chiusure di strade a uso privato) ad alimentare un’insofferenza verso quella che era percepita come un’invasione e un’appropriazione. «Erano arrivati i ricchi».

Da un legame debole con i nuovi abitanti temporanei si è passati, verso la fine degli anni Novanta, a un legame più forte. Le esigenze cambiano e accanto a fattori di carattere ambientale sono fattori culturali a incidere sulle scelte economiche e di vita: i pendolari che si muovono verso Roma per lavoro, o che mantengono comunque un rapporto con i borghi, vivono nell’area e si distribuiscono in modo omogeneo (vengono non solo da Orvieto, ma anche da Parrano). Dire quanti sono è difficile, ma ci sono: diversamente da chi li aveva preceduti, attivano economie e domandano servizi. Sono nomadi stanziali (o nomadi digitali) che mantengono un legame con i centri.

Secondo i dati del censimento del 2011, in Umbria su 446.415 abitazioni ben 89.248 risultavano non occupate, un fenomeno sentito in particolare nei Comuni interni e minori della provincia di Terni dove il numero degli edifici occupati è spesso inferiore al 70%. I contenitori edilizi nei borghi storici, dismessi o sotto-utilizzati, rappresentano quindi un potenziale da recuperare a fini turistici, culturali e imprenditoriali.

È con la rivitalizzazione delle strutture esistenti e la loro ri-funzionalizzazione che si fa strada una diversa visione per Comuni che, nella loro storia recente, hanno avuto un rapporto spesso conflittuale con le nuove residenzialità, e che adesso vedono in questa evoluzione una opportunità di cambiamento. I nuovi che arrivano vivono nell’area (o vi risiedono per lunghi periodi) e creano un diverso legame con gli abitanti, diventando essi stessi abitanti. I piccoli centri (Orvieto) diventano pian piano un «attrattore» che veicola abitanti e non li sottrae, come in passato.

L’ingresso di nuovi residenti, provenienti in prevalenza da Roma e con una buona disponibilità in termini di risorse, ha incentivato il recupero di un importante tessuto di fabbricati rurali (anche attraverso iniziative agricole e agrituristiche) e ha permesso di conservare, specializzare, trasmettere competenze presenti in alcuni settori del «saper fare locale».

Inoltre, la presenza di associazioni e cooperative locali di giovani interessate alla valorizzazione delle città storiche anche in termini di sviluppo dell’artigianato, innovazione e creatività, apre uno spazio di riflessione sulle opportunità imprenditoriali a cavallo tra sviluppo turistico, valorizzazione culturale e conservazione del paesaggio. Si tratta di un interessante banco di prova per far reagire le potenzialità del patrimonio culturale e ambientale con la sperimentazione di nuove competenze ed esperienze di reddito, anche a base culturale, in un’area di confine a forte vocazione agricola.

Cerniera a «Nord Est». L’area interna del Nord Est dell’Umbria – poco meno di 65 mila abitanti in 10 Comuni – ha una specificità: oltre ai sette Comuni che presentano caratteristiche tali da esser classificati come «aree interne», che sono Pietralunga, Montone, Scheggia e Pascelupo, Costacciaro, Sigillo, Nocera Umbra, Valfabbrica, essa vede coinvolti anche 3 «poli», che sono Gubbio, Fossato di Vico e Gualdo Tadino.

Nell’intenzione degli amministratori dell’area, questa caratteristica può diventare un punto di forza. I Comuni «polo» operano al servizio di quelli più piccoli. «Non siamo più la sommatoria di territori, ma un’unica realtà, e vogliamo guardare anche oltre i confini amministrativi della nostra area interna, perché non possiamo non far sistema con le Marche», ha ricordato recentemente il sindaco di Gubbio. Il tracciato dall’antica via Flaminia lega questa zona dell’Umbria ai Comuni dell’Appennino pesarese: due aree interne gemelle e confinanti, che insieme immaginano di sollecitare le Regioni Marche e Umbria a sottoscrivere accordi che permettano di erogare i servizi sulla base della prossimità territoriale e non dei confini regionali. Le aree interne possono riscrivere la geografia del Paese?

Nei sette Comuni più isolati risiedono circa 18.500 persone, con una percentuale molto elevata (pari al 26,7%) di over 65: per questo, tra i servizi da attivare nell’ambito della Strategia nazionale per le aree interne ci sono interventi legati alla tele-assistenza, con l’obiettivo di ridurre anche il ricorso inappropriato alle strutture ospedaliere. Tra i punti di forza dell’area interna del Nord Est dell’Umbria, già presenti anche nel Sud Ovest, c’è la presenza di oltre 520 attrattori culturali, e tra questi numerosi musei già integrati nel sistema museale regionale. Per il futuro, si immagina l’attivazione di percorsi capaci di portare i fruitori dei musei maggiori (per numero di presenze) anche verso le realtà minori, attraverso un sistema di promozione integrata che ad oggi manca, e che dovrebbe essere capace di coniugare il patrimonio culturale e quello immateriale (con manifestazioni come la «Corsa dei ceri»).

Questo turismo è anche uno degli ambiti su cui potrebbe poggiare il rinnovato settore della formazione, in particolare per quanto riguarda l’istruzione tecnica, che dovrebbe saper cogliere le esigenze espresse dall’area per attirare alcuni dei migliori cervelli del territorio: in particolare, gli indirizzi che potrebbero rispondere in modo più efficace a un itinerario di sviluppo locale sono l’agrario e l’agro-alimentare, l’informatica, il turismo e la formazione tecnico-economica che promuova la cultura d’impresa. In tante aree interne vi è un problema legato alla numerosità dei corsi attivati per quanto riguarda l’istruzione secondaria, che non aiuta a rafforzare la presenza di indirizzi che abbiano un effettivo valore aggiunto.

Sono «visioni» necessarie perché il territorio ha subito un forte processo di de-industrializzazione, legato nella conca eugubina in particolare alla crisi di un’industria impattante dal punto di vista ambientale come quella dei cementifici. Se un territorio è chiamato a ripensarsi, può farlo solo a partire dalle proprie ferite.

 

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