Prato è città di contrasti evidenti. È stata la città del tessile che ha dato un contributo determinante alla grandezza del made in Italy, ma è diventata la città con il più alto numero di mutui non pagati in tutta la Toscana. Da anni infatti sta vivendo un processo di impoverimento che ha lasciato attoniti gli imprenditori e espropriati gli operai, un tempo convinti di vivere nel migliore dei regimi economici, quello dove tutti potevano legittimamente aspettarsi di guidare un giorno macchine di lusso. Oggi il mercato del lusso è però sempre più sostenuto dai migranti cinesi.

E ancora, Prato è la città che negli ultimi quindici anni ha visto complessivamente ridursi – invece che aumentare – i collegamenti via treno con Roma e Bologna, lungo il cui asse si trova. Allo stesso tempo, però, se vi capiterà di viaggiare su un aereo proveniente dall’Asia – non solo dalla Cina ma anche dal Giappone, viaggiando con All Nippon Airways – noterete che la mappa delle città lungo le quali si snoda il viaggio aereo che compare sul vostro schermo di bordo non mostra Milano, o Torino, e nemmeno Firenze: le città di rilievo su quella mappa, quando l’aereo si avvicina allo stivale, sono Nizza, Prato e Roma.

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È una contraddizione che ratifica l’ambigua collocazione di Prato, città tutta rivolta al proprio interno e allo stesso tempo transnazionale, anche se a malavoglia.

Il fatto è che la ricchezza di Prato è costruita sui cenci e sui migranti (cinesi), ma a nessuno fa piacere che sia così. È quindi una ricchezza oggi vissuta male, in primo luogo perché si è andata assottigliando in maniera inaspettata, lasciando stremata la città e poi perché è passata di mano, e secondo molti è passata nelle mani sbagliate.

Prato è infatti un caso esemplare degli effetti incrociati della globalizzazione su una stessa località, dove al disinvestimento del capitale in una industria – e all’impoverimento di massa che sempre comporta – è corrisposto l’investimento in un’altra, che ha portato altre forme di ricchezza. L’industria tessile pratese, fiorente fino al 1980, è da tempo diventata periferica nella riorganizzazione globale della moda fino a subire un crollo drammatico. Quello che è peculiare nel caso di Prato è che la chiusura di massa delle fabbriche del tessile ha creato spazi – veri e propri spazi fisici, intendo, cioè lunghe serie di capannoni abbandonati poco prima dagli industriali del tessile – che sono diventati vitali per lo sviluppo di una nuova industria dell’abbigliamento, prima solo modesta in questa città.

Questo processo di contemporaneo disinvestimento (dal tessile) e investimento (nell’abbigliamento) in uno stesso luogo è così paradigmatico della capacità del capitalismo odierno di rendere obsoleti e/o rivalutare gli spazi urbani e produttivi, riplasmando il locale, da poter essere discusso in un corso universitario per la sua esemplarità. Ma fuori dall’accademica, i cambiamenti che hanno investito Prato hanno comportato uno sconquasso sociale difficile da descrivere.

Nel suo libro Storia della mia gente, vincitore del premio Strega nel 2011, Edoardo Nesi, ex imprenditore e poi politico pratese, racconta mirabilmente il declino del tessile dal punto di vista degli imprenditori (ignorando però vistosamente gli operai, e quindi non riuscendo a offrire un affresco davvero corale del processo di disintegrazione dell’economia distrettuale pratese, come ha fatto notare qualcuno). Nesi parla dello «scoramento vuoto che vedevo stendersi sulla mia gente e sulla mia città, l’inarrestabile scadere dell’ambizione, l’abbandono dei sogni più fragili e ingenui eppure più vitali, l’immorale diffondersi della consapevolezza che il futuro sarebbe stato peggiore del presente…».

Parte dello sconquasso sociale è legata al fatto che quell’industria dell’abbigliamento che oggi prospera occupando i capannoni che erano stati del tessile è per l’80% in mano ai migranti cinesi (che pagano affitti astronomici agli ex imprenditori del tessile, si intende). Prato è dunque l’unica città in Italia dove si sia realizzato in maniera vistosa il declino di un’industria di proprietà di coloro che si considerano «autoctoni» in contemporanea con l’altrettanto vistosa ascesa economica di un gruppo migrante: i cinesi.

La città ha sostanzialmente reagito scompostamente al parziale avvicendamento imprenditoriale. In sostanza, chi tesse il discorso dominante ha attribuito ai migranti cinesi e alla loro industriosità ad alto grado di sfruttamento e autosfruttamento le responsabilità per il declino del tessile, che è invece inequivocabilmente frutto di nuove strategie della moda globale. In altre parole, è il tipo di prodotti tessili che avevano fatto la fortuna di questa città e il tipo di organizzazione della produzione caratteristica di Prato a non essere più interessante per il mercato della moda globale.

E così, nel libro di una giornalista de «Il Sole-24 Ore», la città è stata descritta come assediata dai migranti cinesi e la metafora dell’assedio cinese è rimasta in voga a lungo. Inoltre, dal 2007 – e per ben sette anni – con il «Patto per Prato sicura», l’amministrazione locale ha concepito e diffuso l’ideologia secondo cui vi sarebbe un isomorfismo tra imprenditoria cinese, degrado urbano e devianza, rafforzando poi questo isomorfismo con atti altamente simbolici come le ispezioni selettive dei laboratori cinesi condotte con i cani poliziotto e inviando elicotteri a sorvolare i laboratori durante i controlli.

Lentamente, le narrazioni prevalenti in città stanno cambiando.

In una calda domenica di giugno, sotto a un pallone che aumenta l’afa e dove riesce a prendere aria dai ventilatori solo chi è seduto nelle prime file, decine di bambine e bambini cinesi di tre-cinque anni, vestiti di bianco e rosa, salgono sul palco e cantano, compunti e intonati, l’inno di Mameli, portandosi la manina al cuore. Quando alfine la patria chiama, i più piccoli urlano «sì» muovendo platealmente la testa su e giù. Fuori dal pallone circondato da un prato ombroso sono parcheggiate le macchine di lusso dei loro genitori, facoltosi imprenditori cinesi che vivono a Prato da venti o trent’anni. Con la performance canora dei loro bimbi – che include alcune canzoni cinesi e i famosi 44 gatti – quegli imprenditori cinesi mandano all’aria tutte le fumose e artificiali discussioni su quale sia la percentuale di integrazione dei migranti.

I genitori cinesi sono a guardare la performance canora dei loro figli insieme ai politici pratesi venuti nonostante la domenica afosa perché qui si concentra parte del nuovo potere economico di Prato.

Se le narrazioni cambiano, alcune macroscopiche contraddizioni rimangono. Oggi l’amministrazione locale dà il giusto rilievo alle iniziative dei migranti cinesi (ricchi) tese a mostrare il loro radicamento in città (che comprendono anche una serie di donazioni generose e ben dirette). È anche riuscita a imporre Prato come modello per l’inserimento scolastico dei bambini e giovani migranti nelle scuole, creando al contempo una ricca nicchia di mercato per le cooperative che lavorano su questi temi.

Allo stesso tempo, non c’è chiarezza su quali debbano essere le politiche industriali del distretto industriale per antonomasia. L’industria dell’abbigliamento dominata dai cinesi ha trasformato Prato nel più grande centro della moda di basso livello in Europa, e nel fulcro di un network produttivo globale. Questo centro della moda attira grandi retailers e piccoli e piccolissimi commercianti, che con i camioncini vengono a cercare la moda del momento da portare in Germania, Polonia, Francia, Spagna, you name it

Numeri crescenti di cosiddetti «autoctoni» sono coinvolti in questo network globale, ma chi amministra la città non sembra volersi veramente interrogare su come la città tutta possa partecipare appieno di questa industria ormai centrale nell’economia cittadina. E anche la politica regionale di controlli selettivi e serrati su tutte le imprese cinesi per porre fine a situazioni di pesante irregolarità – seppure abbia il grande pregio di dire che non tutto è permesso e l’esplicito micro-obiettivo di dare fiato a un mercato locale della messa in sicurezza dei capannoni industriali –, non spiega ai cittadini se e come queste azioni di contrasto dell’illegalità siano parte di una visione (condivisa con tutti gli attori) per il futuro industriale della città.

Sui cenci, che hanno fatto la ricchezza di Prato, tensioni prima sotterranee stanno ora emergendo.

Prato ha lottato perché in Europa il riciclo dei cascami industriali venisse classificato come produzione di materie prime e non come gestione di rifiuti pericolosi, ma questa battaglia è stata persa. Oggi la città, che ha tradizionalmente vissuto sulla rigenerazione dei tessuti usati, si trova stretta tra inchieste giudiziarie a livello nazionale che svelano domini camorristici sul business del riciclo, e pratiche quotidiane di abbandono degli scarti tessili lungo le strade, che animano le discussioni al bar di cittadini esasperati. A Prato molti pensano che un tema così complesso non possa essere ridotto a problema di ordine pubblico. Anche tenuto conto che il riuso di cascami sembra essere uno degli ambiti dove la creatività industriale di questa città si sta rianimando, con proposte di usarli per realizzare pannelli di coibentazione che potrebbero cambiare la prospettiva da cui si guarda agli scarti industriali.

Una delle più interessanti possibilità di sviluppo per la città resta la sua produzione di cultura. Il Centro per l’arte contemporanea Pecci, recentemente ristrutturato da Maurice Nio, è sempre più centro di attrazione, e un modello di marketing della cultura che funziona.

Basta leggere le valutazioni su TripAdvisor per rendersi conto di quanto entusiasmo si coaguli attorno al Pecci, come viene confidenzialmente chiamato il museo dai pratesi. La ristrutturazione, le mostre, l’apertura all’arte al di là delle sole arti visive riscuotono grande successo. E poi il teatro Metastasio, che già negli anni Settanta offriva una programmazione alternativa quando Firenze era ancora orientata a un teatro più tradizionale, e continua ora con un cartellone sperimentale che ha fra le sue cifre più interessanti la valorizzazione degli edifici industriali e le produzioni di riflessione critica sulla complessità sociale della contemporaneità. Intorno a questo, tanta cultura all’aperto – i concerti e le performance di Ex Fabrica, ad esempio – organizzata con pochi soldi ma ottimi risultati. Insomma, Prato potrebbe seriamente pensare di attrarre sempre più turisti grazie a un’industria culturale focalizzata sul contemporaneo. Se solo potesse immaginare una propria identità anche diversa dalla vocazione industriale che è nel suo dna, se solo riuscisse a dismettere quel persistente senso di inferiorità culturale nei confronti di Firenze.

 

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