Il viaggiatore che, spesso per lavoro, percorre la Valle d’Aosta recandosi in Francia e anche in Svizzera attraverso i passi del Piccolo e Gran San Bernardo incontra nel bel mezzo della più piccola regione italiana la città che le dà il nome (altra particolarità), con le sue antiche vestigia romane e medioevali. Il resto è soprattutto lo scorrere rapido e maestoso dei grandi sempiterni massicci alpini, alcuni (per quanto ancora?) con le guglie perennemente innevate. Sì, perché il «marchio di fabbrica» di Augusta Praetoria (dal nome dell’imperatore romano che nel 25 a.C. la eresse a presidio fortificato contro le invasioni dai valichi montani), oggi Aosta, rispetto pure alla maggioranza degli altri centri alpini italiani, è da sempre costituito dallo straordinario contrasto paesaggistico tra il bianco delle nevi in alto all’orizzonte e il verde dei prati e dei boschi

Se il visitatore è diretto in città, penetrando nelle sue robuste mura, viene accolto dall’Arco di Augusto, formidabile monumento simbolo della locale civiltà romano-cristiana, e poi dalla lunga via antica che attraversa tutto il centro. Nel mezzo sta l’«Hotel de la Ville», il palazzo del Comune di Aosta, nella piazza che a partire dal dopoguerra prende il nome da quello che è considerato il maggiore eroe valdostano, quell’Emile Chanoux protagonista del locale antifascismo, ma ancor più del sentimento autonomista e federalista: una cultura «particolarista» di montagna, che trovò una limpida codificazione nella «Carta» di Chivasso, ovvero la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine del 1943, e che connota politicamente la regione nel quadro della nostra storia repubblicana sin dallo Statuto speciale, perseguito tenacemente dal grande storico europeo (ma anche aostano d’origine) Federico Chabod. Una figura a cui, forse, la propria città natale dovrebbe restituire alcuni meriti o perlomeno essergli riconoscente (il suo cognome valdostano ha intitolato vari centri di ricerca e didattica sparsi nella Penisola).

>> La Valle d'Aosta: i principali dati socio-demografici 

 

Aosta non ha una provincia (la ebbe in sostanza solo ai tempi del fascismo, dal 1927 al 1945), e questa è già un’altra eccezione per una cittadina che per la sua naturale centralità nel territorio presenta una rilevante tradizione amministrativa, per quanto subordinata, dai tempi dei Savoia, al ruolo di sottoprefettura dipendente dall’altra Augusta, la Taurinorum, cioè Torino. Aosta ha invece una intera regione intorno, di cui è capoluogo, potremmo dire in sostanza «capitale», per le competenze statutarie allargate e particolari, definite con l’autonomia a partire dal 1948. Forse non esiste una città in Italia dove il movimento resistenziale di liberazione antinazi-fascista si sia confuso fino quasi a identificarsi totalmente con quello autonomista: una tradizione che da una parte origina nel Medioevo, sin dai primi del Mille, quando Umberto Biancamano, capostipite dei Savoia e conte di Aosta, concesse alcune iniziali libertà ai valdostani in campo economico e fiscale, le quali sarebbero poi state consolidate nella Charte des franchises, un accordo risalente all’accordo del 1191 tra Tommaso I di Savoia e la città di Aosta.

Dall’altra, invece, si radica nella più recente tradizione autonomista, che affonda in buona parte le sue radici nel sentimento di tutela del particolarismo linguistico, affermatosi con la Ligue valdôtaine nel 1909, un movimento sorto intorno all'élite intellettuale locale per far fronte ai ripetuti tentativi dello Stato italiano di cancellare la lingua francese nella Regione, in un’ottica di «nazionalizzazione» forzata. Una tradizione che avrebbe poi trovato forma politicamente compiuta a partire dal 1946 nell’ «unionismo», ovvero nella progressiva affermazione del partito regionalista dell’Union Valdotaine (e delle sue successive segmentazioni), nello sforzo di aumentare progressivamente le competenze del consiglio regionale (un vero e proprio «parlamento») e delle sue giunte di governo.

Ma il 1909 non è solo uno spartiacque politico per la città di Aosta, lo è anche simbolicamente in senso economico, in quanto ha visto, con l’acquisto delle miniere, la premessa per la nascita della sua più importante industria, la Cogne Acciai Speciali, sorta per intercettare e valorizzare direttamente sul territorio di provenienza la allora vasta filiera estrattiva mineraria presente nelle vallate laterali valdostane (in particolare quella da cui prese il nome). Un’industria che incise profondamente sul tessuto demografico valdostano, segnandone dopo la fine della Grande Guerra la crescita numerica, attraverso l’attrazione di migliaia di lavoratori prima dal Veneto e poi dal Sud d’Italia, e condizionando lo sviluppo urbano del capoluogo valdostano. Ciò si realizzò non solo attraverso la costruzione di nuovi distretti popolari nelle periferie cittadine, soprattutto il «Quartiere Cogne», ma anche con lo sviluppo delle infrastrutture, attraverso la costruzione della ferrovia Aosta-Pré-Saint Didier per il trasporto delle materie prime. Inoltre, andò a modificare per sempre il tessuto sociale originario montanaro e a un tempo élitario della città, anche nel mitigarne i sentimenti indipendentistici verso lo stato nazionale che invece maggiormente si possono ancor oggi osservare, ad esempio, in Alto Adige.

E proprio il rapporto con Roma, – dopo una fase liberale che i valdostani vissero in buona parte come una sorta di diminutio della loro tradizionale libertà, peraltro già iniziata con Torino nel Regno di Sardegna – ha nel corso della fase repubblicana segnato fortemente le alterne fortune della Regione, e di conseguenza, della città. Se fino agli anni Settanta la vita politica del capoluogo si è allineata abbastanza con quella nazionale, nel quadro della cosiddetta «democrazia bloccata» in cui i due grandi partiti di massa – la Democrazia cristiana e il Partito comunista – si erano di fatto divisi le competenze di governo dal piano nazionale a quello locale, successivamente alla fase contestataria si è profilata una sorta di «conclusione anticipata» della Prima Repubblica con l’affermazione appunto dell’Union Valdotaine e di altre formazioni partitiche autonomiste nei governi regionale e comunale. Da quel passaggio in avanti, e soprattutto a seguito della progressiva crisi del settore siderurgico che avrebbe toccato anche la Cogne Acciai, Aosta e il suo territorio sarebbero andate incontro a una profonda trasformazione economica, perdendo progressivamente le caratteristiche di città industriale, e cercando a un tempo di assumere, pur con esiti discontinui, un profilo di città turistica e di servizi. La cittadina «intramontana» cercava così di rivolgere nuovamente lo sguardo alla splendida natura che la circonda, potenziando inizialmente soprattutto l’offerta invernale attraverso lo sviluppo della stazione sciistica di Pila, che le ha fatto conseguire un’ulteriore «unicità», ovvero quella di essere l’unico centro urbano, peraltro capoluogo di regione, da cui si può prendere direttamente a piedi la funivia per trovarsi in pochi minuti sui campi innevati fin quasi ai tremila di quota.

Ma la vera crescita di Aosta e della sua valle – una crescita, va detto, finanziaria, piuttosto che di autentico sviluppo economico – si ebbe quando i due ormai antichi decreti legislativi luogotenenziali n. 545 e n. 546 del 1945 furono politicamente richiamati in vita. Il primo aveva, infatti, rinviato l’adozione della disciplina sul riparto fiscale a successivi provvedimenti legislativi, riconoscendo ai governi locali la possibilità di istituire nuove imposte speciali e di godere di eventuali contributi straordinari concessi dallo Stato; mentre il secondo decreto aveva stabilito una normativa specifica relativa ad agevolazioni di ordine economico e tributario riservate al territorio autonomo.

Dopo l’edificazione dell'autostrada e del tunnel del Monte Bianco, da Roma si diede via libera ai «fondi di compensazione», seguiti alla caduta delle barriere doganali che alimentavano l'Iva da importazione dei «Tir» all'autoporto di Pollein. Fu questo un periodo di grande abbondanza di risorse, ma è stata anche forse un’occasione non colta pienamente di sviluppo per il territorio e la città, non essendo stata tradotta in veri investimenti. Certamente il nuovo sistema bibliotecario e la fondazione dell'Università della Valle d’Aosta hanno posto in città le premesse per una crescita culturale e pure per una sua internazionalizzazione; però, mentre il rilancio regionale appariva ritardato da convulse fasi politiche interne orbitanti sostanzialmente su di una non condivisa idea di autonomia e pure diversi strumentalismi, l’avvento dell'euro e del «Patto di stabilità», così come l’irrisolta questione gestionale del Casinò di Saint Vincent (casa da gioco a partecipazione regionale, aperto ancora dal presidente Federico Chabod nel 1946) hanno fatto da preludio alla nuova crisi, determinata dalla negativa congiuntura internazionale del 2009, che ha visto abbassarsi drasticamente (a quasi la metà) la disponibilità finanziaria della Regione. Una situazione critica in cui Aosta, la sua classe dirigente e i suoi uomini di cultura sono chiamati oggi a rispondere con senso di responsabilità, rendendosi consapevoli del patrimonio ambientale e storico-culturale della loro città e della loro valle, di cui sono eredi, e da cui si dovrà ripartire.

Almeno un cenno deve poi essere fatto al dibattito attuale sulle Regioni a statuto speciale, e sulle loro prerogative e agevolazioni fiscali. Un dibattito che, complice la più recente crisi economica che ha colpito tutto il Paese, si è fatto via via assai vivace e pure critico, nelle sedi istituzionali, così come negli ambiti culturali. Difficile immaginare quali saranno gli esiti di una discussione pubblica che a tratti appare impressionistica e solo di rado fondata su dati empirici e valutazioni di causa-effetto, non solo per le regioni interessate ma anche per l’intera comunità nazionale. Superfluo forse anche ricordare come le cinque regioni che l’articolo 116 della Costituzione italiana dota di «forme e condizioni particolari di autonomia» siano molto diverse tra loro, per caratteristiche storiche, sociali e per potenzialità economiche. Tuttavia, si tratta di un dibattito che non può essere ignorato, anche a proposito della più piccola regione italiana. Anche per questo il futuro della Valle d’Aosta si colloca in un quadro di incertezza in cui la città e l’intero territorio regionale sono chiamati, con le proprie forze politiche e intellettuali, a spiegare le ragioni del mantenimento del proprio status amministrativo speciale e delle peculiarità a esso connesse.

 

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