Una città al bivio, dove i tratti del declino economico convivono con aspirazioni al mutamento e, dopo la fine dell’antico modello industriale portuale, a una nuova fase di sviluppo. Questa è Genova oggi. Ma vecchio e nuovo appaiono intrecciati e i processi di innovazione fanno straordinaria fatica a definire un percorso visibile e condiviso di discontinuità, non tanto politica, quanto sociale. Non aiuta la demografia, che vede Genova consegnata a una popolazione largamente invecchiata e a una classe dirigente svuotata, priva di autorevolezza e di lungimiranza, segnata da una rete di rendite di posizione concentrate sull’equilibrio dell’immobilità. La politica annaspa sempre più chiusa in un'autoreferenzialità che è effetto non solo di mancanza di idee forti ma dell’aver perso la rappresentanza sociale tradizionale senza averne saputo conquistare una nuova. Crescono, invece, gli imprenditori politici della paura e dell’incertezza, ma con nessun altra aspirazione che chiudere sempre di più e mobilitare legittimi rancori sociali. Ed è un dramma nel dramma perché Genova ha bisogno oggi di aprirsi, di sconfiggere la propria anemia, di ritrovare competenze che ha lasciato fuggire o ha impedito di crescere.

L’isolamento logistico della città è la metafora di un isolamento che attraversa la città, di separatezze prodotte da piccoli e grandi corporativismi, da nicchie di potere o semipotere che accompagnano la difesa tenace di privilegi erosi dalla crisi e da un mondo globalizzato. L’aspirazione a non cambiare è quindi più forte, radicata e cementata rispetto ai tentativi di rimessa in discussione di equilibri logori e logoranti. Per questo Genova ha anche i tratti della città contratta su se stessa, e dove la fuga dei giovani allontana ogni riflessione sul futuro, sulle sfide di una città contemporanea.  Non vale più neanche lo sconsolato adagio di Montale che nel lontano 1968 scriveva: «Genova città scoraggiata perché sa cosa ha perduto, ma ignora qual è il suo domani».

Rispetto anche a un recente passato il domani è assorbito in un presente disarmante e da insopportabili retoriche. Eppure tutti conoscono le priorità: la difesa del territorio saccheggiato nel dopoguerra dalla speculazione edilizia, un nuovo sistema logistico infrastrutturale, la valorizzazione del porto, del turismo, dell’hi-tech, mettere al primo punto scuola e università, affrontare le tante povertà, le diseguaglianze sociali e le solitudini. Manca l’energia civile a innescare una nuova stagione. È che la città non ha ancora elaborato, nonostante le scelte non banali fatti in questa direzione, la fine di una storia,  non si è emancipata dalla logica delle partecipazioni statali, dalla contrattazione più o meno «compensativa» con Roma. Il Novecento, o meglio l’ombra del novecento, vive ancora qui.  Perché Genova ha avuto un gran Novecento: economico e civile. Un Novecento operaio fatto di grandi realizzazioni industriali, di saper fare, di etica  che innestavano il territorio e lo trasformavano in comunità solidale. La «Litania» di Giorgio Caproni.

E all’apice le giornate dell’insurrezione antifascista dell’aprile 1945, la resa tedesca, unica città europea, alle formazioni partigiane. Che avevano un motto che sembra nato dagli scogli su cui Genova è stata costruita: «ostinato rigore».  Quell’icona è stata a lungo la memoria vera in cui la città si è riconosciuta. Memoria unitaria e condivisa che trabocca poi nel 30 giugno 1960. Certo la storia è più complessa anche riferita a quegli anni.  E rimanda a una città profondamente divisa tra centro e periferie, che non ha mai digerito la conurbazione fascista del 1926, dove convivevano cattolici e comunisti in un muro a muro elettorale ma anche culturale, famigliare, amicale che segnava i quartieri, le mappe mentali, la socialità.

>> Genova e la provincia: i principali dati socio-demografici

Città di muri interni Genova. Da sempre. Anche nel secolo di costruzione degli straordinari e unici palazzi che ne fanno uno dei patrimoni dell’umanità Unesco e il tessuto connettivo del suo attuale centro storico. Amato e odiato.  Sopravvissuto per combinazione ai piani ottocenteschi di demolizione, al piccone risanatore del regime, alla speculazione travestita da modernità degli anni settanta. Un centro storico svuotato di funzioni per far crescere ai margini la città borghese, poi luogo della prima immigrazione, quella dal sud, e ancora della seconda. Quella dal sud del mondo. Un centro storico che ha cominciato ad essere protetto e riqualificato solo negli ultimi trent’anni. Ed è oggi forse la più potente «macchina» di uno sviluppo futuro fatto di turismo consapevole, innovazione, università, tecnologie e ovviamente del porto. Ma  non è ancora davvero percepito come tale, ed è  attraversato da profonde e crescenti sacche di degrado, da influssi mafiosi, da abbandoni. Luogo del cuore e periferia del centro.

Per fortuna Genova non è solo questo. «More than this» come dice il logo promozionale del Comune. Genova laboratorio è un altro motto che attraversa a corrente alternata la città. E per certi versi Genova laboratorio lo è stata davvero e ancora può esserlo. La cultura è diventata un elemento di identità della città e l’offerta culturale ha una qualità nazionale e internazionale con pubblici numerosi, attenti, vivaci. Perché il popolo genovese è ancora un popolo colto e colpisce che davanti a segni visibili di declino economico sia cresciuto e si sia consolidato un sistema culturale che, nel suo insieme, è ormai in grado di competere con quello di città più ricche economicamente e demograficamente. Il turismo è diventato una componente reale della crescita economica e si fonda sull’attrattività e la straordinaria bellezza della città. Genova città d’arte è ormai una meta consolidata per numeri sempre più alti di visitatori. La ricerca ha nell’Istituto italiano di tecnologie un network che dialoga con il mondo, il porto, nonostante la necessità di interventi strutturali, è in grado di crescere nella competizione planetaria, il segmento industriale superstite ha nuclei di straordinaria potenzialità produttiva e altissima qualità professionale con produzioni che non si soffermano neanche sul mercato nazionale. C’è insomma un’innovazione vera che scorre a fianco della retorica dell’innovazione. Non sono risorse da poco. E poi c’è un tessuto solidale che attraversa la città e che ne rappresenta ancora una possibile anima. Largo, ideologicamente variegato, animato da tanti ragazzi e che si collega con culture diffuse e non svuotate dai processi di ripiegamento e di esclusione sociale. Antidoti importanti ai rulli di tamburi della xenofobia e del neo-razzismo. Genova città poco propensa all’apertura e al dialogo con l’altro è capace di integrazione, di accogliere, di non espellere. Spesso senza un pensiero ma con l’agire pratico.

Così una città con bassa soglia di migrazione, tendenzialmente stabilizzata e inferiore al 10% della popolazione si avvia a diventare città multietnica davvero e a sua insaputa nel prossimo futuro. I genovesi tra gli zero e i cinque anni sono per oltre il 28% figli di cittadini di provenienza straniera. Ma non ci si pensa come non ci si pensa in tante altre parti d’Italia. Ecco la Genova città al bivio. Chiusa e spaventata ma anche con straordinarie potenzialità che però non riescono ancora a ridisegnarne il volto. E quale strada verrà intrapresa non è oggi scontato. Molto dipenderà se saprà ritrovare al proprio interno la capacità di attrarre appunto sangue nuovo. Per altro è quello che è successo nei momenti migliori della sua lunga storia.

 

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