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«Who cares for this town?», chi si prende a cuore la sorte di questa città? È la domanda che formulava, pronunciandola in inglese sommessamente tra sé e sé, un anziano manager di grande esperienza internazionale e nello stesso tempo profondamente torinese, un giorno in cui si ragionava delle prospettive – o meglio: del pericoloso vuoto di prospettive – della Torino d’oggi. Un interrogativo che suona scorato, dopo che le televisioni di tutto il mondo hanno rilanciato i fotogrammi di una piazza San Carlo devastata da un’onda di panico invincibile e convertita in una distesa infinita di cocci di vetro e di detriti insanguinati, il sedimento amaro di una festa di piazza tramutatasi in poco meno di una catastrofe.
Non ci vorrà poco perché Torino riesca a scrollarsi di dosso l’immagine di una città che ha patito su di sé gli effetti di un’azione terroristica senza esserne neppure stata sfiorata. La condizione d’incertezza è stata incentivata dalle pesanti difficoltà finanziarie degli enti territoriali, che hanno rallentato i processi di trasformazione e di adattamento della società locale. Così, mentre Milano ha conosciuto recentemente una fase di rilancio che le ha ridato smalto e capacità di attrazione, Torino è parsa ripiegarsi su stessa, come se sulle prospettive della città si stendesse l’ombra, non solo metaforica, del grattacielo della Regione progettato da Massimiliano Fuksas, un’opera inquietante nella sua malinconica e perdurante incompiutezza. Quasi il simbolo involontario di una perdita di visione e di direzione di marcia.
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Torino ha assistito a un cambiamento del suo governo locale, alla metà del 2016, che era stato pronosticato da ben pochi. Eppure, dopo l’enfasi posta dai media sulla fine del lungo ciclo politico dominato dal centrosinistra e l’avvento di una giunta del Movimento 5 Stelle, presieduta dal sindaco più giovane che Torino abbia avuto, Chiara Appendino, una volta spenti i riflettori dei telegiornali, non c’è stata alcuna discussione locale di una svolta che ha interessato persino la stampa internazionale. Nessun confronto all’interno delle file, ormai sguarnite, di un centrosinistra asfittico e afasico, che ha patito la sconfitta quasi in silenzio, ma soprattutto nessun ragionamento di respiro tale da superare i limiti della cronaca, che ha finito per inghiottire per intero un cambio in origine enfatizzato da tutti per il suo rilievo.
Il ribaltamento politico ha decretato all’improvviso l’obsolescenza del racconto urbano cui aveva dato forma il centrosinistra in office: quello della scomparsa della città fordista e iperindustrialista del Novecento, convertitasi in una realtà metropolitana variegata e plurale, vivificata dalle iniziative culturali e aperta al mondo quanto la precedente era stata chiusa nel perimetro delle sue fabbriche. Caduta questa narrativa, che l’ultimo centrosinistra aveva tentato di puntellare fino all’ultimo, recando a sostegno i numeri del turismo e della partecipazione alle manifestazioni culturali, essa non è stata sostituita da nessun’altra. Nel senso che i 5 Stelle sono, sì, riusciti a scalzare definitivamente un’immagine della città che era diventata frusta e alla quale l’urto con la crisi aveva tolto sostanza, ma senza proporne una ad essa alternativa, modellata sulle ansie della Torino d’oggi, ma anche sulle sue aspirazioni. Insomma, se quella delle giunte di centrosinistra era una rappresentazione più che di Torino del suo centro e delle accattivanti iniziative che lo animavano, non ne è subentrata un’altra, in cui fosse incorporata una realtà diversa e più composita. Il tema delle periferie, brandito come un’arma durante la campagna elettorale dai 5 Stelle all’attacco del potere in carica, è scivolato ai margini, restando opaco com’era prima del cambio amministrativo. La Torino odierna è una società sospesa, priva di un orientamento preciso e spesso in dubbio sulla possibilità di recuperarlo. Ha dismesso una retorica logora, senza però rimpiazzarla con nulla La Torino odierna è una società sospesa, priva di un orientamento preciso e spesso in dubbio sulla possibilità di recuperarlo. Ha dismesso una retorica logora, senza però rimpiazzarla con nulla. La sua cifra non è la decrescita, se per essa s’intende la volontà esplicita di ricondurre il sistema locale a confini più delimitati e circoscritti. Non è neppure l’elogio di un riabilitato senso della misura, che riscopre un genius loci incline a perseguire dimensioni più modeste, in linea con la propensione gozzaniana d’inizio Novecento per la città «mite e sonnolenta». È una sorta di ritirata silenziosa, un ripiego tacito intessuto di rassegnazione.
Stentano a imporsi persino le sollecitazioni per rilanciare le domande sul futuro economico della città, che rimane indeterminato, giacché è passata la voglia di esercitarsi ad abbozzare scenari le cui incognite sono troppo numerose per poter acquistare valore di riferimento. Le grandi questioni che un tempo tenevano banco, come il destino della vasta area di Mirafiori, il lascito più ingente dell’industrialismo del secolo scorso, non riscuotono più molta attenzione. Eppure, in quel territorio di fabbrica si calcola che non lavorino meno di 16-17 mila persone, in prevalenza «colletti bianchi», giacché soltanto una quota contenuta è addetta alle linee della produzione automobilistica che hanno il loro apice nella fabbricazione del Suv Levante, l’ultimo prodotto del marchio Maserati.
Il sistema delle imprese annovera ancora aziende innovative di ottima qualità, ma dalla consistenza limitata. Fra quelle che mantengono la testa a Torino e il corpo produttivo in Piemonte spicca la Lavazza, che inaugurerà verso fine anno la «Nuvola», il suo nuovo quartier generale, un’operazione che ambisce a riqualificare un quartiere il quale, senza quella presenza, si confonderebbe già con la periferia. La Lavazza è un gruppo in piena espansione, che punta al traguardo dei due miliardi di fatturato all’anno. Un buon volume d’affari per il business del caffè, ma che certo non raggiunge le dimensioni delle grandi imprese di un tempo.
D’altronde, basta guardare con attenzione a ciò che si va producendo nel tessuto urbano di Torino per accorgersi che esso non tende affatto all’inerzia. Chi, mosso dalla curiosità, osservi la città dall’alto, per esempio dall’altro grattacielo edificato da IntesaSanPaolo, può cogliere i sintomi di un mutamento nelle funzioni territoriali ed economiche. Gli investimenti privati sono tutt’altro che fermi e concorrono a disegnare una differente mappa della città.
Ai confini di Torino, nell’area della Continassa dov’è situato lo stadio della Juventus, è in fase di edificazione avanzata il J Village voluto dalla società calcistica. Lì si mescoleranno sport e leisure, strutture di formazione per i giovani e attrezzature turistiche. Nel centro, invece, nei pressi del Parco del Valentino, la Fondazione Agnelli sta per inaugurare la propria rinnovata sede là dove era sorta mezzo secolo fa. In un edificio dotato di soluzioni tecnologiche d’avanguardia saranno concentrate attività di ricerca, dedicate all’education e alla nuova imprenditorialità e vi sarà uno spazio destinato al co-working. L’intento pare quello di costituire un polo integrato di attività attorno a un nucleo di economia della conoscenza. Nell’area del Politecnico, in quelle che un tempo erano le Officine grandi riparazioni delle ferrovie, la Fondazione Crt sta per aprire uno spazio dove la sperimentazione digitale e quella connessa alle manifestazioni artistiche coesisteranno alla ricerca di un profilo della modernità
Altre iniziative potrebbero essere ancora citate, ma è evidente che, nel loro complesso, gli investimenti privati stanno già componendo gli elementi che contribuiscono a mutare il volto della città. Soprattutto perché consolidano il cambiamento di profilo dell’antica città industriale, con interventi che introducono una logica orientata alla produzione e al consumo di servizi in luogo della produzione manifatturiera. Ciò non oscura, beninteso, le tendenze al degrado che si manifestano nella struttura urbana e che non possono essere trascurate. I poteri pubblici devono misurarsi con gli investimenti privati affinché da quest’interazione possano derivare strategie di scambio e di negoziazione tali da dare luogo a una visione composita della città. Di sicuro il punto d’intersezione fra pubblico e privato sarebbe il momento da cui far ripartire il discorso sul futuro di Torino. Almeno in passato, la guida della città, nelle fasi di mutamento, non è stata appannaggio esclusivo delle amministrazioni locali e dei partiti che le hanno alimentate. Essa ha avuto il sostegno attivo di un ambiente urbano che sapeva esprimere, insieme, una coalizione di interessi e delle direttrici culturali, quasi delle idee-forza, atte a sostenere e a orientare il cammino delle amministrazioni municipali. Il territorio e il suo sistema locale possedevano la dote di condensare degli aggregati in cui gli interessi economici e sociali si mescolavano, traendone slancio, con quelle idee-forza che restituivano efficacia e consenso all’azione amministrativa, oppure la sottoponevano a un vaglio critico. Questa condizione, che ha caratterizzato i passaggi migliori della storia della città, sembra ora essersi estinta.
A guardarla nel suo insieme, Torino lascia l’impressione di un disegno incompleto, come se fosse venuta meno, a un certo punto, una mano che mettesse a posto le tessere del mosaico e che, soprattutto, aggiungesse quelle che mancano per dare una forma compiuta a una trama interrotta. Si sono affievolite anche le risorse di partecipazione e di consenso attivo mobilitate nel passato. È sintomatico allora che Torino rimarchi sempre meno la sua differenza da un’Italia cui è accomunata da un analogo malessere di fondo Di questi e degli altri problemi non si parla quasi più, nell’assenza di un discorso pubblico che costituisce una delle poche novità autentiche della città più recente. Non più quella continuamente sotto l’osservazione delle scienze sociali di cui parlava trent’anni fa Arnaldo Bagnasco (Torino. Un profilo sociologico, Torino, Einaudi, 1986), che la collocava tra quelle studiate con più frequenza e costanza. Dominata allora dall’impulso a riflettere su sé medesima, fino quasi a scrutarsi al microscopio, la Torino odierna cede a una rassegnazione pratica che la fa sorvolare persino sulle sue urgenze. Ha perso l’ordine industriale senza riuscire a imprimersene un altro (simile in ciò a tante altre città di produzione dell’Occidente, che pagano il prezzo di un’identità incerta). Alla lunga, dopo gli iniziali entusiasmi di un decennio fa per una trasformazione terziaria amplificata dagli investimenti per le Olimpiadi invernali del 2006, ha visto non solo lo sfaldamento dei suoi centri decisionali, un tempo coesi e ora dispersi e con ridotto potere, ma al progressivo dissolversi di quel discorso pubblico sulla città che era stato il suo orgoglio (e anche un po’ la sua condanna). Intendiamoci: c’erano degli eccessi evidenti in quel tornare insistente su Torino e i suoi caratteri. E c’era anche il rischio di discutere di più di quanto davvero fosse necessario all’azione pubblica e collettiva. Non di meno, in quel discorso pubblico era racchiuso anche il tono politico di Torino, la nota civile che la distingueva e che conferiva un valore speciale alle scelte amministrative. Ora che non esiste più e che della città e delle sue questioni parlano soltanto gli addetti ai lavori, in una cornice convenzionale, sovente venata d’indifferenza, è chiaro che si sono affievolite anche le risorse di partecipazione e di consenso attivo mobilitate nel passato. È sintomatico allora che Torino rimarchi sempre meno la sua differenza da un’Italia cui è accomunata da un analogo malessere di fondo.
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