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Il tempo conta, quando si parla di spazio. Quanto ce ne vuole, per arrivare da Forlì a Rimini? Mezz’ora basta? Ecco, mezz’ora è l’unità di misura ideale, per la Romagna agli albori del XXI secolo: mezz’ora di treno, mezz’ora d’auto, mezz’ora di bici. Ci sono molti luoghi che, spostandoti, puoi raggiungere entro i chilometri contenuti in trenta minuti di movimento. Ciò rende psicologicamente dominabile l’ambiente sub-regionale, ne disegna il limes fisico e antropico.
Certo, non si arriva ovunque in così poco, in Romagna, partendo da una delle sue città principali (Ravenna, Rimini, Forlì e Cesena): in ogni caso, le relazioni fra questi quattro insediamenti sono quasi assicurate entro l’«unità di tempo locale».
La demografia romagnola presenta tassi di crescita modesti: se non fosse per gl’immigrati, i residenti sarebbero assai meno del milione e poco più che indicano i censimenti. Le variazioni sensibili sono, semmai, infra-romagnole: l’unica vera conurbazione è quella riminese, che da Bellaria a Cattolica tiene uniti oltre 230.000 individui, mentre Ravenna ha i suoi circa 160.000 sparsi in una serie di frazioni per lo più rurali, strutturate come paesi con identità specifiche (al punto da far pensare ad una federazione di paesi, più che a un comune). Forlì, antico capoluogo amministrativo nobilitato dal «duce» e ora decaduto, contiene a malapena Cesena, che si avvicina alle 100.000 anime e ambisce a un ruolo di protagonista provinciale, forte della propria collocazione baricentrica rispetto alle consorelle.
>> La Romagna: i principali dati socio-demografici
Vi ho appena raccontato in due parole il discorso pubblico municipalistico, che vale soprattutto per le classi dirigenti politico-amministrative: le quali conservano con cura le stereotipìe isolazionistiche prodotte dalle vetuste identità segregate della Romagna campestre e solatia, quando i mezzadri vivevano avvitati alle loro tornature, a scopo meramente protezionistico. Sì, perché il campanilismo rende i «mercati politici» romagnoli autoreferenziali e impermeabili da parte di attori esterni. Se prescindiamo dagl’individui, invece, il «mercato politico», sotto il profilo dei «generi di consumo» (i partiti), ha mostrato finora una tenuta del Pd nei centri principali, mentre le piccole comunità paiono più in bilico, in montagna come sulla costa. Il cambio di maggioranza, dai primi anni Duemila, qui non è più un tabù. Non c’è, però, un movimento alternativo: chi ha espugnato i municipi «rossi» lo ha fatto per lo più in occasione di contingenze fortuite favorevoli, locali o personali, e non sull’onda di una marea montante alternativa. Basti osservare che, nel 2016, non c’è stato nessun candidato ufficiale pentastellato a contendere la scranno del sindaco a Ravenna e a Rimini.
Gli amministratori romagnoli sostengono che il loro territorio ha bisogno d’infrastrutture, ma bisogna intendersi: rispetto a sessant’anni fa, quando esisteva di fatto solo la via Emilia e le altre arterie nazionali apparivano decisamente molto «vecchio stile», c’è l’autostrada A14, inclusa la diramazione per Ravenna; c’è la superstrada E55, proveniente dall’Umbria, fino a Ravenna; c’è una statale adriatica in diversi punti rettificata e messa in sicurezza; ci sono due aeroporti (con diversi problemi); c’è un porto industriale a costante rischio d’insabbiamento che si cerca di rilanciare anche in funzione turistica. La linea ferroviaria, invece, è più in sofferenza, in particolare a causa della rete, decisamente arretrata se paragonata alla tratta Bologna-Milano o Bologna-Firenze: tutto il traffico confluisce su due binari fra Rimini e Bologna e corre addirittura su uno lungo i 50 km che separano Rimini da Ravenna.
Oltre alle arterie principali, Ravenna, Rimini, Cesena, Forlì e Faenza sono dotate di assi di arroccamento o di tangenziali che spesso descrivono un vero e proprio confine urbano. Capiamoci, però: una cesura netta fra città e campagna, in Romagna, è difficile trovarla, oggi. Già il paesaggio, prima della guerra, era pieno di tipiche abitazioni mezzadrili, almeno fino all’area della grande bonifica ravennate. Pullulava, cioè, di famiglie contadine, che avevano allestito per gli spostamenti un dedalo di stradine bianche, di sterrati carrabili, di vie vicinali. Dopo, cioè dalla fine del decennio Sessanta, è arrivata la pianificazione delle aree industriali e poi, dagli anni Ottanta, la grande «febbre del mattone», che ha impermeabilizzato quote crescenti di tessuto rurale senza trovare ostacoli. Oggi non c’è un chilometro di pianura romagnola senza un insediamento, antico o nuovo; ed è sufficiente, per rendersene conto, salire fino a Bertinoro, sperone balconato che dà su questo fazzoletto di terra, e guardare in basso, in una notte chiara: un alieno trasportato lì per la prima volta, abbacinato dalle luci accese ovunque, penserebbe di trovarsi di fronte una megalopoli estesa 60/70 chilometri in lunghezza e 20/30 al massimo in larghezza. E invece sono solo i romagnoli moderni, ai quali costruire è piaciuto molto più che riusare, e che in una generazione hanno devastato per sempre il panorama pascoliano. Difficile parlare d’identità, quando si osservano fenomeni macroscopici del genere.
L’ultima crisi ha frenato l’edilizia. I piani strutturali urbanistici, le cui previsioni inespresse di consumo di suolo variano ancora dall’11% di Rimini al 13% di Forlì al 28% di Ravenna (dati del 2011), giacciono negli uffici comunali: ma c’è da scommettere che, alla prima occasione, la macchina mangia-campagna riprenderà a muoversi. Eppure l’agricoltura specializzata, in Romagna, pesa più che in molte altre province emiliane; e il turismo, che si vorrebbe arricchire di percorsi interni fino alle falde degli Appennini, necessita di un paesaggio antropizzato, certo, ma non selvaggiamente urbanizzato. E poi il grande mistero: non c’è pressione demografica né industriale, essendovi larga copia di condomini e capannoni abbandonati o in disuso: e allora perché sacrificare ancora la terra? Se fosse vera l’unica spiegazione razionale – «è la legge del plusvalore, baby» –, si potrebbe chiosare, osservando l’evidente mutazione antropologica consumatasi nel romagnolo, dall’arretrato «frodo lento» fin de siècle (fine Ottocento, ovviamente) di lombrosiana memoria, incapace di gestire il denaro per arretratezza culturale, allo speculatore tanto spregiudicato da uccidere la base organica del proprio insediamento, alla faccia della piadina, del Sangiovese e del culto dell’ospitalità.
La natura distrettuale dell’industria – il calzaturiero a S. Mauro Pascoli, il mobile imbottito nel Forlivese, la meccanica per l’agroindustria nel Cesenate, la ceramica fra Faenza e Imola, tanto per fare qualche esempio – è ancora leggibile, nonostante la contrazione dei margini di profitto e la dura selezione imposta dalla crisi; crisi, quella scoppiata fra il 2008 e il 2009, all’appuntamento con la quale la Romagna si presentava dopo aver recuperato, quanto a valore aggiunto pro capite, molta della distanza che storicamente l’aveva separata dal cuore dell’Aemilia felix: e ciò per effetto del boom edilizio, ma anche di una ristrutturazione obiettiva delle imprese.
La fase depressiva ha distrutto molto, infierendo soprattutto sul settore del credito: molte banche locali boccheggiano o versano in uno stato pre-fallimentare, mentre le fondazioni di origine bancaria, un tempo generose nutrici del «capitale sociale», hanno conosciuto un brutale sfoltimento: solo le erogazioni di Forlì, Ravenna e Imola, oggi, pesano qualcosa. A subirne le conseguenze, a parte la vivace trama dell’associazionismo locale, rischia di essere soprattutto l’Università, cioè il decentramento realizzato dall’Alma Mater tramite il modello multicampus: un’innovazione che, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, ha davvero inciso sul volto architettonico e sociale delle città medie romagnole, salvaguardandole almeno in parte dagli effetti disgregatori, in termini di coesione comunitaria, generati dallo sprawl indiscriminato, col suo corollario di attraenti e moderne periferie attrezzate sull’orlo della campagna urbanizzata.
Una ricerca dell’Istituto «Carlo Cattaneo» di Bologna sul «capitale sociale» della Romagna, pubblicata nel 2004 – la sola che fotografi ancor oggi la sub-regione in termini complessivi – segnalava che il «sentimento soggettivo di appartenenza territoriale» si abbinava, più che con altri, col fattore «convivialità»: una dinamica relazionale praticata universalmente e apprezzata a tutte le età. Può essere che costituisca ancora il tratto caratteristico dei romagnoli contemporanei, sempre che, nel frattempo, anch’essa non sia incappata nel solvente della banalizzazione gastronomica per teleutenti. Nonostante la tenacia della rappresentazione stereotipata, infatti, il tempo muta gl’individui in profondità, anche quando non sembra. Anche in Romagna.
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