Nella piccola patria di Guido Piovene, che cominciò a parlarne con intelletto d’amore (per la precisione alla radio) nel 1954, la sosta nella città berica descritta da uno dei suoi figli di più raffinata cultura coincise con il consolidamento di un’immagine che agli occhi degli italiani avrebbe legato per molto tempo l’idea e il nome di Vicenza all’eredità palladiana e a una religiosità diffusa. Nonché il suo intero territorio provinciale alle grandi fabbriche tessili di Schio e di Valdagno, all’intraprendenza di non pochi industriali paternalisti e un poco anche al mondo e alle cose recenti di tutto il Paese viste attraverso lo sguardo di giovani scrittori come Mario Rigoni Stern, fresco autore de Il sergente nella neve e come il Goffredo Parise de Il prete bello. A Vicenza, sin dal 1955, avevano insediato una loro base militare (Camp Ederle) gli americani, militari molto diversi dagli alleati festosi che dieci anni prima avevano liberato la città dal nazifascismo. Eppure cominciava lo stesso, allora, un cammino ricco di conquiste economiche e di soddisfazioni che sarebbe durato almeno sino alla metà degli anni Ottanta, e che non sembra aver più nulla a che fare con l’attuale panorama vicentino, reso altamente instabile da una crisi senza fine e da mille scontri di potere consumati assieme a varie faide di fazione e all’insorgere di tristi populismi, figli dell’insicurezza e di una evidente sfiducia nel futuro.

A salvarsi apparentemente dal disastro restano qui solo pochi simboli architettonici del passato. Particolarmente vistosi quelli ricollegabili ai principali edifici pubblici: oltre a varie chiese, la Basilica palladiana, il Palazzo Chiericati, fastosa  pinacoteca cittadina (e gli altri palazzi non dissimili e ora sedi di banche o di fondazioni culturali), il Teatro Olimpico, la villa detta La Rotonda e quella tiepolesca di Valmarana ai Nani, riproposti infatti con assiduità al turismo di massa mordi e fuggi, in uno con le mostre «ribollite» dalla premiata «Linea d’ombra» del mercante d’arte Marco Goldin e per questo, sino a un certo punto, addirittura «valorizzate» (commercialmente parlando) assai più che in passato.

Il cuore di Vicenza – e non solo quindi l’Olimpico, il suo gioiello più prezioso, già piegato a mille usi impropri – rassomiglia a una scena teatrale che si differenzia dai quartieri contermini, quasi tutti vocati alla gentrificazione, e dalle estese periferie poste agli estremi del perimetro urbano. Coloro che le abitano, e che costituiscono il grosso dei residenti,  spartiscono generici sentimenti identitari, di solito addossati solo al tifo sportivo, ma si distinguono per linee sociali esterne piuttosto nette, benché non sempre la perifericità corrisponda a puro degrado o all’esclusione tout court che caratterizza semmai pochi angoli minori a ridosso del centro storico battuti sia dai borderline locali sia dagli immigrati o dai sinti e dai rom veneti. Zone urbanizzate abbastanza tardi, come quella intitolata a suo tempo a S. Pio X, appaiono più che vivibili e accoglienti, altre, più recenti e generate magari dalla speculazione edilizia o dalle prevaricazioni dei poteri forti cittadini, come quella accatastata a Borgo Berga come insulto assoluto al paesaggio e alla storia, all’estetica e al buon senso, si attirano invece l’avversione dei vicentini di ogni generazione.

>> Vicenza e la provincia: i principali dati socio-demografici

Vicenza rimane nondimeno una città nel suo complesso abbastanza ricca e affluente. Di fatto, e a dispetto delle difficoltà devastanti dell’ultimo decennio (fallimenti e chiusure, dismissioni e delocalizzazioni), resistono in essa alcune residue sicurezze dal lato produttivo e da quello della ricchezza privata (cospicua benché di pochi): dopo i fasti della piccola e media impresa favoriti dalle provvidenze democristiane in pro delle aree depresse – del cui venir meno, nel decennio 1980, si nutrì il successo arriso alla Lega – questo côté materiale regge tuttora  nei frattali del tessuto industriale e sociale di tutto il Vicentino, dove anche la Chiesa e il mondo cattolico sono mutati non poco rispetto agli anni Cinquanta.

La provincia, pur declassata ma egualmente forte di quasi 900 mila abitanti (per un abbondante 10% stranieri) e con quattro cittadine che ne contano ciascuna oltre 25 mila (Bassano, Schio, Valdagno e Thiene), fa da corona a Vicenza, in calo demografico dal 2010 con la sua media di 113 mila residenti, di cui 12 mila – pari al 16% del totale – immigrati dalle più varie parti del mondo (oltre 120 le etnie, ma con serbi, rumeni e moldavi in testa, senza contare i 12 mila americani di ben due basi Usa). Ciò nonostante, essa si piazza fra le zone più industrializzate di tutta la penisola con i suoi distretti della concia e dell’oreficeria, della lana e dei filati, della ceramica e dell’elettronica, confermandosi prima nel Veneto - e quinta in Italia – anche per incidenza del valore aggiunto del comparto cultura sul totale dell’economia.

Può darsi che quest’ultimo primato abbia a che fare con il numero fuori dell’ordinario d’intellettuali e di scrittori famosi (Meneghello, Neri Pozza, Bandini ecc.) e oggi anche di grandi giornalisti, da Paolo Madron a Gianantonio Stella, da Sergio Romano a Ilvo Diamanti, che assieme formano una vera pattuglia di valore. C’è poi la Vicenza narrata con prosa irata e astiosa da Vitaliano Trevisan, fatta di archistar e arcichef, imprenditori occhiuti e padroncini assatanati, rozzi geometri e commercialisti in combutta con costruttori d’ogni sorta, operai sfruttati o autosfruttati e così via, quasi sempre fatti oggetto di analisi e di scherno da parte dello scrittore. Anche a volerne parlare in sintesi sarebbe necessario, per una decente spiegazione, rifarsi a sequenze narrative troppo complesse dove però spiccherebbero i diversi volti di Vicenza, una città cattolica e conservatrice, ma liberaleggiante e fogazzariana già nel tardo periodo post-unitario, capace di darsi in età giolittiana, dal 1909 al 1914, un sindaco massone e una giunta bloccarda sostenuta dall’alleanza fra i partiti popolari di sinistra e poi addirittura «rossa» e socialista, tra il 1920 e il 1922, dopo il turbine della Grande guerra combattuta in montagna dalle sue parti; prima di soccombere a un regime, il fascismo, che avvantaggiò al massimo grado, con i notabili di sempre, i clericali saliti puntualmente al potere al termine del secondo conflitto mondiale. Seguì quasi mezzo secolo di egemonia asfissiante, lasciato in eredità a una Lega popolare e populista finita paradossalmente in mano a uomini delle vecchie terze o quarte file Dc e destinata quindi a far da puntello alle mire berlusconiane di Forza Italia. Visibilmente intenta, questa, a far tornare tutto dov’era e com’era. Che non fu tanto il motto buono per le sciagure in laguna di Massimo Cacciari dopo il rogo della Fenice del 1996, bensì l’essenza del progetto surrettizio e mal dichiarato di un nuovo ceto politico a dir poco incompetente, lontano anni luce da quello che a proposito del campanile di San Marco crollato nel 1902 aveva permesso al sindaco d’oro di Venezia, Filippo Grimani, di coniare con la certezza di vederlo inverato lo slogan ambizioso e divenuto celebre della ricostruzione perfetta in tempi stretti del manufatto caduto. Una ricostruzione che, spostandosi in tutt’altri settori e in un diverso periodo, a Vicenza avrebbero dovuto garantire in modo tempestivo le compensazioni ingenuamente immaginate (anche perché promesse) a ristoro degli enormi danni subiti dalla città in seguito alla duplicazione, fra il 2007 e il 2013, dell’insediamento militare Usa sull’area del suo ex aeroporto civile, il Dal Molin.

Gli americani a Vicenza, non già alleati della Nato bensì a tutti gli effetti, secondo molti, truppe straniere d’occupazione e ben descritti in modo profetico da Parise dopo il loro primo arrivo ai piedi dei Berici, al di là del numero fattosi ormai esorbitante, restano a tutt’oggi ospiti ostili e indifferenti, inutili ed estranei come marziani alla città che percorrono di corsa, se soldati, quasi solo all’alba, paghi di avere per sé e per le proprie famiglie, al netto di valutazioni strategiche o geopolitiche insussistenti, una location di lusso fra mari, monti e laghi a due passi da Venezia e nel cuore  di una città d’arte dagli ameni dintorni collinari.

Tradita da due governi nazionali di opposto colore e da un commissario ad acta come l’europarlamentare Paolo Costa, il «collaborazionista» più inviso ai vicentini contrari alla doppia base, Vicenza arranca dietro alle chimere di un parco detto ipocritamente della «Pace» e davanti ai tentativi continui del quotidiano locale d’inventarsi episodi virtuosi ma del tutto improbabili di una integrazione fra indigeni e «foresti» in stand by, tolte poche eccezioni, da più di sessant’anni. Fallita anche per la mancata reazione dei leghisti, rimasti senza parole o meglio smentiti nella più classica delle loro rivendicazioni («Paroni a casa nostra»), questa integrazione mancata e oltremodo problematica sotto sotto non convince nemmeno chi, come il ricordato Trevisan, accede oggi, da fustigatore professionale dei costumi locali, all’ardua apologia di uno dei tanti raggiri propinati, dopo la catastrofe della nuova base di guerra post Twin Towers, a un’opinione pubblica forse frastornata ma nient’affatto avversa o indifferente, come egli è propenso a credere, alle posizioni di condanna e di rifiuto dell’inaudita violenza subita dalla città con il raddoppio della presenza militare statunitense.

All’alba del 2017 è ancora questa presenza materializzatasi al Dal Molin a rappresentare una ferita aperta nel cuore della città assieme ad altre magagne paesaggistiche e a nuove brutture edilizie inguardabili oltre che largamente illegali: su tutte l’imponente ecomostro di Borgo Berga, frutto avvelenato non meno della base Usa delle decisioni prese in gran segreto e alle spalle della cittadinanza, fra il 2003 e il 2007, dalle giunte di centrodestra in accordo con vari potentati di costruttori locali e con un governo straniero, ma poi avallate, in buona sostanza, da quelle di centrosinistra ad esse subentrate e rette fra il 2008 e il 2017 da Achille Variati, un politico di mestiere transitato a suo tempo dalla Margherita al Pd. Pupillo da giovane di Rumor e ultimo sindaco democristiano del capoluogo berico nel lontano 1995, giusto all’indomani dell’attribuzione a Vicenza del riconoscimento da parte dell’Unesco di «bene patrimonio dell’umanità», oggi per la prima volta messo seriamente in forse e quindi sub judice, egli si è mosso con indubbia destrezza in un contesto condizionato in realtà, almeno per vent’anni, ossia sino al 2015, dal sistema di potere economico e ambientale messo in piedi, con l’appoggio di gran parte delle associazioni imprenditoriali, dal vinattiere – «irto e spettrale»  avrebbe certo detto il Carducci – Gianni Zonin da Gambellara. Insignoritosi di un istituto di credito come la Banca popolare vicentina, ora sull’orlo del fallimento e già causa del dissesto patrimoniale di migliaia di soci e azionisti, Zonin assunse tutti i poteri un tempo distribuiti fra i vari gradi della costellazione democristiana legando a sé un numero impressionante di politici, di funzionari, di magistrati. Salvatosi a stento dall’abbraccio iniziale con una creatura mediatica come la sua prima vice Alessandra Moretti, Variati, fattosi renziano e giunto agli sgoccioli del proprio ultimo mandato, spartisce con la città l’incubo di un cumulo impressionante di problemi irrisolti e di alcune serie jatture, che vanno dal dissesto della Fondazione Roi, già cassaforte delle istituzioni culturali vicentine svuotata da Zonin, alla perdita netta d’importanza della Fiera di Vicenza annessa, per fusione societaria in minoranza, a quella di Rimini, dalla liquidazione della – un dì potentissima – Camera di commercio sino al tracollo della squadra di calcio biancorossa, in A dal 1954 per vent’anni e poi protagonista a lungo nelle serie maggiori, ma precipitata nel maggio del 2017 dalla B in Lega Pro (meglio nota una volta come serie C, categoria inferiore a cui, di riflesso e forse di conseguenza, molti cittadini di Vicenza temono oggi di appartenere sentendosi quasi degli italiani minori).

 

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