Il turista che vuole capire Siracusa deve coglierla con uno sguardo ampio a volo d’uccello lanciato dai ruderi del Castello Eurialo, che dominava e controllava dall’alto la città all’epoca della sua massima potenza nel torno tra il IV e il III secolo avanti Cristo, e che oggi più semplicemente la sovrasta.

Volgendo lo sguardo a Nord, vedrà affacciarsi sulla baia di Augusta i serbatoi, le ciminiere e i pontili di quello che è stato il più grande polo petrolchimico italiano, generatore di occupazione, ricchezza, consumi e inquinamento negli anni della grande trasformazione, poi a partire dagli anni Novanta in crescente declino e dismissione, classificato per l’elevata emergenza ambientale come Sito di interesse nazionale e sottoposto a bonifica e risanamento. A Sud Est vedrà lo specchio acqueo del porto grande, un lago salato che ha svolto nei secoli funzioni militari e commerciali che hanno rappresentato l’identità economica della città e ora è oggetto di polemiche tra chi lo vuole destinato al turismo leggero da diporto e chi pensa invece alla croceristica pesante, nonostante il progressivo interramento. A chiudere la circonferenza del porto c’è l’isola di Ortigia, puntuta come il becco di una quaglia, che nello stretto spazio di pochi chilometri quadrati ha sedimentato i segni dell’insediamento umano dall’Antichità al Medioevo, dai Normanni agli Aragonesi, per arrivare al Barocco e al Liberty di primo Novecento. Gioiello di urbanistica e architettura, preservata dai guasti della modernità da una legge regionale del 1976 che ha tutelato i centri storici, oggi in gran parte restaurata con fondi pubblici e privati, Ortigia è il cuore pulsante di un turismo di massa che si avvicina per numeri e frequenze a quello delle città d’arte del Centro Nord.

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Poi a salire sulla terraferma si staglia la città del Novecento dei condomini in cemento armato, che dall’alto si percepisce monotona e disordinata mentre assedia il grande parco archeologico della Neapolis, con le sue vestigia greco-romane che dall’Eurialo si lasciano solo intuire, ma che rimangono l’anima della città, il segno identitario più profondo. Svetta, invece, in bella vista con effetto straniante un cono di cemento che è il Santuario della Madonna delle lacrime, che celebra il miracolo della lacrimazione di una statuetta di gesso negli anni Cinquanta, quando la città era ancora rurale e mercantile e nel Sud pullulavano le madonne pellegrine. Il miracolo consacrò la città alla vergine Maria, così come da sempre lo era stata a Santa Lucia, santa degli occhi e della luce. Gli occhi, le lacrime e la luce appartengono all’immaginario religioso di un città devota, che negli anni Cinquanta seppe saldare miracolo economico e miracolo della lacrimazione intorno al potere granitico della Democrazia cristiana.

Volgendo lo sguardo a Sud Ovest troneggiano le propaggini dei monti Iblei. Sono i monti Climiti, che proteggono la città e l’agro siracusano e spiegano la sua capacità nell’Antichità di resistere al nemico che veniva dall’entroterra, mentre Archimede (nel mito) bruciava con gli specchi ustori quello che veniva dal mare. Ma spiega anche il suo isolamento attuale, la difficoltà di allargare il controllo oltre la stretta fertile pianura che la circonda. È una pianura che da Nord a Sud è sempre stata ricca d’acqua, favorendo lo sviluppo di un’agricoltura irrigua che oggi innerva il paesaggio, ma anche la formazione di aree di pregio naturalistico: le fonti del Ciane con la coltura del papiro e la palude dei Pantanelli ricca di biodiversità, oggi protetta da una legge regionale.

Dal Castello Eurialo, Siracusa mostra i suoi volti molteplici, un’area industriale in declino che produce però ancora la quota di valore aggiunto per abitante più alta della provincia, un’agricoltura ricca che ha trovato nel limone e nel vino i suoi prodotti doc, un turismo sempre più di massa che utilizza paesaggi urbani e rurali d’eccezione come potenti attrattori. Le ricerche socio-economiche descrivono un territorio ricco di plurime risorse in cui convivono agricoltura, turismo e industria, che lo qualificano come uno dei più dinamici della Sicilia, con una significativa propensione all’innovazione e notevoli potenzialità di crescita.

Delle tre filiere, due, il turismo e l’agricoltura, hanno salde radici nel passaggio tra Otto e Novecento, ancora visibili sia nel sistema dei grandi alberghi di Ortigia e della terraferma, che in quegli anni furono edificati e oggi rappresentano il perno dell’offerta turistica, sia nelle fabbriche di trasformazione dei prodotti agro-alimentari che punteggiano l’area retrostante il porto, ormai dismesse e abbandonate in attesa di un recupero in chiave di archeologia industriale. Tanto il turismo quanto l’agricoltura hanno retto l’urto del processo di industrializzazione repentino e travolgente che ha investito il territorio tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, non sono state cancellate dalla monocoltura petrolchimica ma, solo temporaneamente marginalizzate dallo sviluppo industriale, sono riemerse come un fiume carsico negli anni Novanta rinnovate e qualificate.

A ben vedere, in questa resilienza possiamo leggere il lavoro di quegli uomini e di quelle istituzioni che nella Golden Age siracusana hanno saputo avere lo sguardo lungo, costruendo nell’era dell’industria le condizioni di tenuta del turismo e dell’agricoltura. Uomini come l’archeologo Luigi Bernabò Brea, l’urbanista Vincenzo Cabianca, lo storico dell’arte Giuseppe Agnello, politici come Santi Nicita della Dc e Salvatore Corallo del Pci hanno saputo costruire le politiche di tutela, valorizzazione e sviluppo urbanistico in grado di contenere almeno in parte la forza straripante dell’industrialismo. Grazie a loro, con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, sono stati espropriati i terreni del parco della Neapolis ed è stato costruito il Museo archeologico Paolo Orsi, con i fondi della Regione Sicilia è stato poi finanziato il piano recupero di Ortigia che ce la restituisce oggi quasi intatta come patrimonio dell’umanità. Grazie alla cultura urbanistica di Cabianca, che seppe integrare il piano regolatore urbano nel quadro del piano dell’Area di sviluppo industriale e del Piano turistico 10 della Casmez, la città gode di un’area a Sud oggi ancora pienamente disponibile all’agricoltura e alla valorizzazione delle risorse ambientali. A finanziare queste operazioni è stata la medesima Cassa, che a partire dal 1957 ha erogato miliardi di lire per gli impianti e le infrastrutture di Esso e Montedison.

Oggi a quegli anni ci si può volgere con lo sguardo che denuncia il sacco urbanistico e l’avvelenamento dell’aria, del suolo e dell’acqua, o con quello che censisce ciò che è stato consapevolmente tutelato e preservato, oppure tenendo i due sguardi uno vicino all’altro in un orizzonte unico. È forse questa la cifra identitaria della città, questa la chiave di lettura da proporre: una tensione continua che a volte sfocia in conflitto, ma più spesso in compromesso, fra antico e moderno, fra tutela e sviluppo, fra tradizione e innovazione. Una tensione che segna la forma degli spazi, alimenta la memoria degli abitanti tra la nostalgia di un passato immaginato come grandioso e la consapevolezza di un presente sentito come mediocre, e trasmette allo sguardo di chi la incontra per la prima volta l’estasi di una bellezza intatta o lo sgomento di una sacralità violata.

Siracusa, pur con la sua marcata originalità, è infatti pur sempre una città siciliana e porta con sé le caratteristiche e le debolezze strutturali che frenano lo sviluppo, tipiche delle città medie del Mezzogiorno. Una presenza pubblica improduttiva, vieppiù consistente man mano che arretra il ruolo dell’industria; una profonda carenza delle infrastrutture stradali, ferroviarie ed energetiche che ha alimentato le fratture territoriali e la disomogeneità nella distribuzione delle risorse, una limitata capacità degli attori istituzionali di incidere nei processi di sviluppo, con un conseguente deficit del governo locale nell’offerta di beni collettivi e servizi avanzati che ha limitato il ruolo della città a luogo di consumi privati e di servizi alla persona. Tutto ciò si può leggere nei numeri e nelle parole delle analisi economiche e socio-politiche, ma si respira nella quotidianità della città, dove aleggia un senso di precarietà della vita civile organizzata, una latente inefficienza dei servizi, una debolezza della mano pubblica che fa coppia con una predisposizione alla mediazione silente, al quieto vivere e ai ritmi lenti.

Nonostante sia una città industriale, Siracusa appare così molto diversa della dinamica Catania e dalla laboriosa Ragusa. Una delle caratteristiche delle sue classi dirigenti è stata infatti quella di subire processi di sviluppo innescati da stimoli esterni e di mostrare difficoltà nel governarli. Così è stato a fine Ottocento quando, con l’abbattimento delle mura spagnole, il passaggio dalla specializzazione militare di Ortigia a quella commerciale e turistica, basata sull’economia del porto, fu gestito da imprenditori non locali, naturalizzati solo successivamente attraverso politiche matrimoniali. Così fu per la svolta industrialista imposta dai monopoli della petrolchimica, quando trovò impreparata la borghesia locale che vi si adeguò investendo principalmente nell’edilizia e facendo crescere a macchia d’olio la città.

Così rischia di essere la fase attuale, che pone due temi essenziali: gestire il declino dell’area industriale con la bonifica e la riconversione e costruire un’economia del turismo orientata a un uso equilibrato delle risorse culturali e naturali del territorio. Nel primo caso, il dibattito politico segnala la mancanza di un progetto condiviso sul futuro dell’area delle classi dirigenti locali, che stentano a confrontarsi con le strategie globali degli oligopoli dell’energia e assecondano un’idea di bonifica meramente finalizzata al ripristino ambientale, priva di una progettualità sul riuso delle aree dismesse, rinunciando così a indirizzare lo sviluppo. Nel secondo caso, invece il dibattito cittadino denuncia il rischio di depauperamento delle risorse turistiche, a causa di un loro sfruttamento privo di progetto e di controllo. L'attuale incremento di presenze turistiche, in gran parte connesso alle condizioni di pericolo nei Paesi Nord africani, ha generato infatti nel centro storico un’espansione incontrollata dell’offerta di consumi, che, oltre a compromettere la stessa vivibilità dei luoghi (anche per gli stessi turisti), vede un abbassamento della qualità dell’offerta, che rischia di danneggiare le stesse potenzialità economiche del mercato attuale.

Anche in questo caso la città sembra stare un passo indietro rispetto ai processi che la attraversano. Il settore che appare invece più radicato nell’imprenditoria locale e più consapevole di svolgere un ruolo strategico è quello agro-industriale che rappresenta il filo rosso di tutta la storia novecentesca della città e partecipa di quel processo di incremento delle esportazioni che è il tratto più rilevante dell’economia del Mezzogiorno.

Per comprendere questo ritorno alla tradizione agricola, l’ostilità e l’oblio dei siracusani nei confronti della vicenda industriale, consiglierei al viaggiatore colto la lettura di due romanzieri aretusei poco noti al pubblico di massa: Piero Fillioley, con I nidi di vespe e I Barracuda, e Laura Di Falco, con L’inferriata. Ci troverà la cifra tipica di un’antropologia meridionale borghese e popolare che incontra il moderno e lo metabolizza con fatica.

 

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