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Se ci accontentiamo di uno sguardo televisivo, Ragusa e l’area degli Iblei sono riconoscibili per il mare, quello del dramma umanitario e quello della fiction. Al centro della provincia che ricalca i confini della antichissima Contea di Ragusa e Modica, e adesso «libero Consorzio comunale», la antica Hybla è sempre stata terra di immigrazione, prima e più ancora che di emigrazione. Fatto salvo un periodo piuttosto ampio, tra la fine del XIX secolo e i primi anni Venti, e poi l’immediato secondo dopoguerra, da qui sono partiti in tanti – ma molti meno che dal resto dell’Isola, e nella città capoluogo molti meno che nei comuni più piccoli dell’altopiano. Soprattutto negli ultimi tre decenni, quest’area costituisce una delle frontiere di approdo dei flussi di immigrati. Anche se, nel tempo, sono stati in tantissimi a trovare un lavoro e una vita tra serre, masserie e ristoranti, magari al servizio dei turisti a caccia di un selfie davanti alla casa del commissario Montalbano.
Due immagini selettive, dunque. Una punta di iceberg, ma cosa dire della parte sommersa? Certo, se comparata alla verde Lombardia, quella ragusana è una terra povera e desolata, ma ricchissima e «diversa», per molti aspetti, se messa accanto alle altre otto provincie siciliane (in posizione intermedia tra le province siciliane e le medie nazionali: è l’effetto sandwich). Lo hanno scritto in tanti: questa parte sud-orientale della Trinacria è «Regnum in Regno» e anche in termini di landscape fornisce un impatto a sé. A partire da una struttura urbana policentrica, dodici comuni con la Ragusa capoluogo che però non è metropoli egemone, che si incastra nella «conchiglia» dei monti Iblei che degradano verso il Mediterraneo. Da una ricca agricoltura, ma oggi certamente meno di ieri, dopo la crisi del comparto, che parrebbe diventata endemica forse anche «grazie» a dissennate scelte romane e palermitane. Un flusso turistico notevole (secondo gli esperti ancora ben al di sotto delle potenzialità del territorio) che non si limita alla visita di tre giorni a Ibla, Modica, Scicli e al Castello di Donnafugata (tutti luoghi un tempo appena conosciuti agli storici dell’arte e adesso famosi in tutto il mondo perché set della serie partorita dalla mente di un altro siciliano, l’agrigentino Andrea Camilleri). Che si tramuta anche in affari immobiliari, posto che centinaia di antiche ville suburbane e masserie ottocentesche sono state acquistate da ricchi inglesi e soprattutto maltesi, così come le casette monofamiliari di Scicli e Modica Bassa sono diventate residenza di artisti, manager, intellettuali nord italiani ed europei.
>> Ragusa e la provincia: i principali dati socio-demografici
Alla crescita, per certi versi portentosa e anche disordinata dell’industria turistica, fatta dal proliferare di un'imprenditorialità senza politiche di supporto e di sistema, ha contribuito anche una «legge speciale» (l.r. n. 61 del 1981), oltre all’inserimento di Ragusa, Modica e Scicli come «patrimonio dell’umanità» nella World Heritage List, per via di quello stile «tardo barocco» inventato dai capi mastri siciliani all’indomani del catastrofico terremoto del gennaio 1693. Il movimento sismico di maggiore potenza scatenato sul territorio italiano, un disastro naturale che funge da cesura storica per territori e comunità, senza il quale il presente sfugge.
La legge regionale 61 venne adottata per finanziare il comune di Ragusa (e di Siracusa) vincolando le somme a progetti per la rivitalizzazione del centro storico sette/ottocentesco di Ragusa superiore e l’intero quartiere antico, identificabile con Ibla; ed ebbe un'implementazione lunga da attribuire alla burocrazia comunale e al funzionamento della commissione centri storici, tanto che entrò a regime solo oltre un decennio dopo, quando iniziò a dare buoni frutti. Almeno fin quando la Regione ha garantito un regolare e sostanzioso flusso di denaro (nell’ordine di cinque milioni l’anno in tempi pre-crisi), si è messo mano al restauro e al recupero di molte abitazioni da tempo abbandonate e si è promossa l’apertura di molte attività commerciali. La rivitalizzazione di Ibla è stata favorita poi dello sviluppo dell’Università, pur oggi ridotta a soli due corsi di studio.
Alcune infrastrutture vanno poi citate. Il porto di Pozzallo (al cui molo attraccano petroliere e mercantili, oltre le motovedette che pattugliano il Canale di Sicilia per salvare chi fugge dalla guerra e dalla fame). E il più piccolo ma moderno e funzionale porto turistico di Marina di Ragusa, diventato in meno di dieci anni il luogo eletto di centinaia di nord europei che svernano a bordo dei loro yacht. Infine, ma non per importanza, l’aeroporto di Comiso, che da base missilistica è stato trasformato in aeroporto civile con non poche tratte, tuttavia ancora insufficienti. Questione nevralgica quella delle infrastrutture, che ha condannato quest’area a un certo isolamento e dipendenza dalla vicina Catania, ma soprattutto ha imposto costi aggiuntivi che hanno frenato l’economia locale.
Il richiamo a tutti questi fattori tocca una chiave di lettura della realtà ragusana: la centralità delle variabili istituzionali e delle loro relazioni con le più tradizionali dimensioni socioculturali ed economiche, di norma evocate nelle analisi dello sviluppo locale meridionale.
La cuspide meridionale della Sicilia, terra molto più a sud di Tunisi, si caratterizza da sempre per alcune unicità che la rendono – come detto – molto diversa dal resto della Sicilia. Un’«isola nell’Isola» che mette bene in evidenza diversità singolari, che affondano le radici nella cesura tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Per alcuni tale asimmetria originaria contrappone «quasi civiltà»: greco-romana e fenicia-cartaginese. Qui basti rintracciarla nell’introduzione dell’enfiteusi (a partire dalla metà del Cinquecento), il fattore istituzionale che favorì il declino anticipato del latifondo. Del resto, è sufficiente scorrere anche rapidamente la storia moderna ragusana per rendersi conto del peso delle interdipendenze tra aspetti istituzionali, culturali ed economici. E per comprendere quanto i recenti cambiamenti del sistema dei poteri locali aprono rischi di dipendenza da altre aree metropolitane (di egemonia di élite urbane allogene) e di declino della capacità di governance intra-provinciale.
La storia dell’area iblea è stata opportunamente descritta come caratterizzate da ben tre rivoluzioni agricole (la prima, si è detto, delle forme giuridiche di uso della terra, quella del XIX secolo delle colture arboree e dei vigneti e nel secondo dopoguerra delle colture in serra). Ma, va subito aggiunto, anche da processi di industrializzazione mancati, il più rilevante dei quali relativo alla scoperta del petrolio nel 1953. In realtà, nella provincia, e soprattutto nel capoluogo, l’attività industriale era di più lungo corso. Già nel 1850 a Ragusa venne impiantata una filanda per la produzione di tessuti grezzi, e solo dieci anni dopo l’avvio in modalità industriale di un'antichissima attività fino a quel momento rimasta in forma di artigianato, civile e artistico: l'esplotazione e lavorazione della roccia calcarea bituminosa, asfalto. Negli stessi anni nella vicina Comiso sorgevano prima un’industria del tabacco, poi una modernissima (per l’epoca, ovvero la seconda metà dell’Ottocento) cartiera, e in tempi più vicini a noi la redditizia industria del marmo e del granito. A Modica una fiorente attività avicola (e più di recente, con notevole fama e notevoli ricavi, l’industria dolciaria) e a Vittoria e Scicli, come abbiamo detto, una portentosa trasformazione della fascia costiera in un’unica, grande macchia luccicante di migliaia di serre che producono primaticci e fiori venduti in tutti i principali mercati non solo italiani.
In questo quadro i fattori che spinsero la crescita urbana, anche nella direzione della terziarizzazione precoce, furono ancora istituzionali: l’elevazione di Ragusa a capoluogo di provincia nel dicembre del 1926 in pieno regime fascista e, quindi, nel 1950, a sede della nuova diocesi. La centralità amministrativa e del pubblico impiego, assieme a una struttura sociale terziarizzata, si rifletteranno sulle aspettative di crescita alimentate dal boom economico – con il ruolo cruciale e allo stesso tempo distorsivo dell’edilizia – e sulla rappresentanza politica moderata (monopolizzata dalla Dc fino ai primi anni Novanta). Va anche ricordata una rarità, almeno in Sicilia, diventata una unicità negli ultimi anni: la presenza di una banca con sede nel capoluogo, la Banca Agricola Popolare di Ragusa, di fatto ormai l’unica interamente siciliana.
Il quadro di contesto però era destinato a mutare, l’ultima crisi economica ne è stato il catalizzatore. L’agricoltura non ha più raggiunto i livelli degli anni Trenta, come in forte decadenza appaiono interi comparti, dalle produzioni orticole lungo i fiumi (praticamente scomparse) all’allevamento ovino e caprino. Resiste invece l’azienda zootecnica con la produzione lattiero-casearia, ancora sana e redditizia, una piccola ma ammirevole industria legata alla coltivazione del carrubo e la trasformazione del frutto. Il vero e proprio crollo del comparto va spiegato con fattori sia interni (prevalenza di micro-imprese, costo della manodopera, carenza di servizi, accesso al credito) sia soprattutto esterni (concorrenza degli altri Paesi europei, Spagna in testa, politiche agricole dell’Unione, “corsie preferenziali” per i prodotti agricoli dei Paesi del Maghreb). Sul versante dell’industria petrolchimica (alla filiera dell’asfalto seguirono, nel 1953 e nel 1960, la costruzione di una cementeria ancora oggi produttiva e, all’indomani del giacimento petrolifero della Gulf, un’industria petrolchimica per la produzione di etilene, anch’essa produttiva tutt’oggi, per il capitale della Eni), le attese collettive vennero presto frustrate. Dagli anni Novanta, invece, la risposta allo sviluppo è sembrata arrivare dalle piccole e medie imprese. Sono emerse realtà di eccellenza (nell’agri-industria, nell’informatica, nelle manifatture), ma con il cronicizzarsi della crisi il settore ha mostrato i sui limiti – forme societarie inadeguate, sottocapitalizzazione, carenza di infrastrutture e di servizi, costi burocratici e dei fattori produttivi, bassa innovazione.
Nell’insieme, l’area degli Iblei costituisce una realtà dell’estrema periferia italiana ed europea, centrale però per collocazione geografica in quel bacino del Mediterraneo agitato e reso oggi temibile dagli sconvolgimenti demografici, sociali e politici che lo attraversano. Una terra che da questa turbolenza ricava tensioni e conflitti, ma anche opportunità, novità, ricchezza. Una terra che non è mai stata omologabile nelle categorie storicamente accettate per delineare un Mezzogiorno italiano uniforme e mai del tutto integrato. Una piccola realtà provinciale con tutti i limiti e le contraddizioni che tale classificazione comporta, ma anche una terra che ammalia, che stimola in tanti, soprattutto tra i forestieri, suggestioni sovente legate alla decisione di viverci. Di rimanerci.
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