Non conosco città in Italia, ma forse neppure nel mondo, che si siano permesse il lusso di far lavorare tre archistar per poi cestinare senza tanti complimenti i loro progetti. Modena si è presa questo sfizio, sollecitando (e poi accantonando) le idee di personaggi come Frank Gehry, Gae Aulenti e Mario Botta, a cui erano stati affidati, rispettivamente, la progettazione di una nuova porta all’entrata nord della città, la trasformazione del vecchio ospedale civile in un polo culturale e infine il rifacimento della centralissima piazza Matteotti. Modena è fatta così, vive con un disincanto tale da consentirle di ingaggiare prima e di snobbare poi nomi che hanno fatto la storia dell’architettura moderna. Una città che nei decenni ha lasciato che i geometri devastassero le sue periferie ha poi fermato perché troppo dirompenti le idee dei magnifici tre, preferendo tornare al suo anonimo understatement costruttivo di sempre. Gehry e Botta l’hanno presa male, mentre Aulenti se n’è andata da questo mondo prima che venissero archiviate le torri che aveva immaginato là dove un tempo parcheggiavano le ambulanze del glorioso Sant’Agostino.

Forse Modena non è fatta per le sfide coraggiose. O, meglio, vive in una sorta di sdoppiamento tra una vita pubblica pigra e litigiosa e un’economia spumeggiante che invece continua a girare a mille e a rendere la crisi sempre più un ricordo lontano. Nella vita sociale sembra che tutte le innovazioni vengano vissute come altrettante provocazioni: ci sono voluti anni e anni per togliere le auto dalla splendida piazza su cui si specchia il Palazzo Ducale, con polemiche feroci, ma adesso che quel grande spazio fa parte dello status quo della città nessuno vorrebbe più tornare indietro. Lo stesso discorso vale per il grande parcheggio sotterraneo ricavato sotto l’ex ippodromo, ai margini del centro, o per il museo nato nella casa natale di Enzo Ferrari: per anni l’obiezione è stata «che bisogno ce n’è?», salvo poi convenire che non esiste città di queste dimensioni in grado di ospitare tutti i parcheggi in superficie e che era una follia non avere un luogo dedicato a uno degli italiani più conosciuti al mondo.

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La Modena pubblica sembra perdersi quando c’è da accelerare, da dare il colpo d’ala. Preferisce il piccolo cabotaggio alle grandi sfide. Ma c’è un rovescio della medaglia ed è decisamente positivo: nella routine l’amministrazione dà il meglio di sé, è una macchina da guerra che funziona quasi alla perfezione, perché qui la gente ha ancora il senso del lavoro e della collettività, quest’ultimo enfatizzato in decenni di amministrazioni rosse. Vale per i servizi comunali, mediamente piuttosto efficienti, e vale per la sanità, che continua ad assicurare buoni standard di assistenza a tutti, immigrati non proprio regolari compresi. Le scuole sono in buono stato, gli asili e le strade pure. Non è poco, nell’Italia di oggi. Questo spiega perché i tanti che vengono a vivere qui, per lavoro o per studio, finiscano per integrarsi bene e mettano radici. Tutto sommato funziona anche l’equilibrio tra le due città che coesistono a contatto di gomito l’una dell’altra: i modenesi da più generazioni, che in genere sono di età media piuttosto alta e vivono nei quartieri residenzali attorno al centro; e i «forestieri», come li chiamano qui, che invece sono in genere nuclei familiari più giovani e numerosi e abitano i grandi quartieri-dormitorio che stanno soprattutto attorno alla parte Sud Est della via Emilia. Convivono, ma quasi mai si sfiorano: persino gli orari dello struscio sotto i portici del Collegio sono diversi, il sabato mattina per gli indigeni, la domenica per gli altri. E allo stadio i primi affollano le tribune, mentre i secondi si accomodano in curva. E il bello è che il tifo più caldo per la squadra dei «canarini» viene proprio da questi ultimi, che cercano nella squadra locale la conferma di essere ormai accettati a tutti gli effetti tra i modenesi.

Il collante, è chiaro, non sono solo i servizi sociali: ci pensa l’economia che tira a distribuire a tutti almeno una fettina della grande torta produttiva. Le crisi aziendali ci sono, ma vengono risolte con una certa disinvoltura, in genere chi perde il lavoro lo trova altrove senza grandi difficoltà. Già, perché qui la ruota gira grazie alla grande capacità degli imprenditori di rinnovarsi e di cambiare pelle: i carpigiani della moda hanno saputo fare quel che è mancato a Prato, ovvero la capacità di superare la dipendenza dai marchi altrui, creandone dei propri come Liu Jo, Twin Set, Blumarine, Gaudì e tanti altri, restando nella catena del valore; lo stesso hanno fatto i ceramisti di Sassuolo, che hanno alzato il livello (e i prezzi) delle produzioni, sfuggendo alla concorrenza dei Paesi emergenti e aumentando le dimensioni delle loro piastrelle, che ormai sono oggetti d’arredamento in grado di rivestire non solo i pavimenti, ma anche le pareti più ricercate; e poi c’è la meccanica, con il fiore all’occhiello dell’automotive di Ferrari e Maserati, aziende che un tempo erano poco più di grandi atelier artigiani e che oggi sono multinazionali da miliardi di fatturato, con poli di progettazione che stanno cercando di risollevare anche una nobile decaduta come l’Alfa Romeo. Se si vuole vedere un simbolo dei tempi che cambiano, basta andare sul tratto della via Emilia che guarda a Reggio: nei grandi capannoni dove un tempo si costruivano i bus della Orlandi oggi c’è un enorme open space in cui lavora un migliaio di ingegneri dell’automotive. Uno spettacolo che rinnova la tradizione di una terra «impastata di olio meccanico», per dirla con Edmondo Berselli. Per non parlare del polo del biomedicale, che ha fatto la fortuna della Bassa e di Mirandola, con un mix di aziende locali e di multinazionali che convivono felicemente, un po’ facendo a gara e un po’ aiutandosi le une con le altre. Risultato: non è un caso se la banca di qui, la Bper, ha tenuto senza troppi scossoni, a differenza di quanto avvenuto in zone come il Nord Est e la Toscana, che sembravano anche più dinamiche sul piano produttivo. Qui stanno piovendo enormi capitali dall’estero, spinti dai fondi di private equity che comprano quote di aziende in tutta la provincia, sedotte dal «modello Modena». E qui i talenti si sentono a casa, attratti soprattutto nell’area tecnico-ingegneristica grazie appunto al fascino della Motor Valley, con corsi universitari e scuole professionali a numero chiuso che non riescono a far fronte alle tante domande d’iscrizione.

È chiaro che la domanda che tutti si fanno è: durerà? Per rispondere occorre fare una premessa: più volte l’economia modenese ha battuto i tanti uccelli del malaugurio, che pronosticavano la prematura fine di un’industria fondata soprattutto sul «piccolo è bello». Quella criticità è stata superata in bellezza, grazie anche a una pace sociale che ricorda molto il modello renano e che ha trovato la sua massima celebrazione nel grande sviluppo che ha avuto da queste parti l’economia cooperativa. Anche nel privato difficilmente il padrone è la controparte e questo fa sì che si faccia fronte comune, soprattutto nei momenti duri. No, oggi la preoccupazione è più di tipo sociale che economico e riguarda la capacità di integrare felicemente una popolazione che invecchia e che fa sempre meno figli, a fronte di un’immigrazione che guadagna rapidamente posizioni e che presto potrebbe essere maggioranza, con la capacità di dire la propria su equilibri politici e sociali ben consolidati, con la sinistra che governa ininterrottamente dalla Liberazione. I dati sono impressionanti. Per la prima volta nel 2015 il numero dei decessi in città ha superato quota 2.000, allargando la forbice rispetto al numero dei nati, a sua volta sceso sotto quota 1.600. Il fatto è che gran parte di questi bambini sono figli di immigrati e questo, unito a un flusso ininterrotto di nuovi arrivi, fa sì che già alla fine dello scorso anno gli stranieri residenti nel comune capoluogo fossero 28.500, una città nella città, anche se piuttosto disomogenea. Di questi l’11,3% proviene dal Marocco, l’11% dalla Romania, il 10% dalle Filippine, il 9,7% dal Ghana e l’8,2% dall’Albania. È solo grazie a questa ondata migratoria che Modena è passata in dieci anni da 175 mila a 185 mila abitanti, confermandosi il secondo centro della regione alle spalle di Bologna.

Finora l’integrazione sembra funzionare: tra uomini che lavorano nelle fabbriche e donne che operano soprattutto come colf e badanti dei tanti anziani modenesi, la nazionalità non sembra essere un handicap per chi cerca un posto e uno stipendio con cui vivere dignitosamente. Il resto, come dicevamo, lo fanno una scuola decisamente inclusiva, una sanità che non guarda al colore della pelle e una rete di volontariato formidabile, oltre a un pulviscolo di polisportive capaci di chiudere un occhio se il baby-calciatore dalla pelle scura non ha i mezzi economici per pagare la quota mensile di iscrizione. E che anzi trova il modo di allungare al piccolo un po’ di cibo e di vestiario, oltre alla canonica attrezzatura sportiva. Anche qui sembra che prevalga un pragmatico approccio alla tedesca: più che come un pericolo, gli immigrati vengono vissuti come un’opportunità, per avere manodopera disposta a fare mestieri che i giovani locali non hanno alcuna intenzione di fare. È chiaro che nel momento in cui gli stranieri di prima o seconda generazione dovessero diventare maggioranza (e non manca molto), parecchi equilibri sociali potrebbero essere rimessi in discussione, con esiti tutti da vedere. Ma l’impressione è che ancora una volta ci se la possa fare: rispetto a Bologna e Parma, che sono le altre città emiliane più importanti, Modena dà l’impressione di essere meno ripiegata sul passato, più sfrontata nel guardare in faccia al futuro. Se per il capoluogo di regione è tuttora attualissima la definizione che ne diede Francesco Guccini in una sua celebre canzone («…è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano e il culo sui colli»), per Modena si potrebbe ricorrere semplicemente allo sgangherato Vasco Rossi di «Colpa d’Alfredo»: «…mi puoi portare a casa questa sera, abito fuori Modena, Modena Park». Meno poetico, d’accordo, ma più immaginifico di una città pratica, forse più ignorante, in cui anche «rimorchiare» in fondo è un lavoro. E nei cui versi fa già capolino, siamo nel 1980, un politicamente scorretto «negro», quello che rimorchia la ragazza di cui sopra. Quando si dice la capacità del pop di leggere i tempi che verranno…

 

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