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in Italia
Fra le tante città medie del nostro Paese, quelle attorno ai centomila abitanti, Ancona è una delle più suggestive e notevoli. Suggestiva per il suo aspetto naturale. Il suo nome deriva da Ankòn, che in greco significa «gomito», e in effetti la città appare come una penisola che, come è stato notato, ha molte affinità con Venezia. Il sole sorge e tramonta sul mare, in un trionfo del rosso. A Nord di Ancona le spiagge hanno la sabbia dell’Adriatico medio-settentrionale. Immediatamente a Sud c’è la roccia, il Monte Conero, un pezzo di Dalmazia che si è trasferito da Est a Ovest dell’Adriatico.
Notevole per i suoi monumenti. Il «viandante» che, superata la paura per il traffico attorno alla stazione, volga a sinistra cercando di imboccare il lungomare, ha innanzitutto davanti a sé l’imponete edificio della Mole Vanvitelliana, il Lazzaretto, realizzato nel XVIII secolo dallo stesso architetto della Reggia di Caserta, Luigi Vanvitelli.
Andando sempre diritto, superando il lungomare, si entra in via della Loggia, una strettoia che offre subito alla vista un imponente palazzo del Quattrocento, Palazzo Benincasa, al quale si appoggia la Loggia dei Mercanti, anch’essa creata dalla medesima famiglia, probabilmente di origine perugina, che dà il nome al palazzo. La strettoia si allarga improvvisamente e sulla destra appare un gioiello del romanico, Santa Maria della Piazza, costruita fra l’XI e il XII secolo. Si sta ancora sul lungomare e qui bisogna faticare un po’ per raggiungere il Duomo, di una semplicità assoluta, romanico purissimo del X-XI secolo, sorto sulle rovine di un tempio romano, con una pianta a croce greca, segno inconfondibile per i naviganti.
Abbiamo raggiunto il punto più alto di uno dei due colli di Ancona: il colle Guasco. Ora scendiamo. Ecco la piazza dell’Arcivescovado, ancora un vicolo, e poi il maestoso Palazzo degli Anziani, sede del vecchio comune, risalente al XIII secolo e recuperato negli anni Sessanta del Novecento come sede della Facoltà di Economia.
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Continuando a scendere, ci muoviamo per uno stretto vicolo dedicato a un umanista quattrocentesco: vicolo Pizzecolli e anche qui, alla fine della strettoia, sulla sinistra troviamo la chiesa di San Francesco alle Scale, un prodotto del Tre-Quattrocento di cui è stata completata solo la facciata. Ancora un vicolo e poi la piazza più bella, Piazza Del Papa, che ci ricorda un po’ le grandi piazze di Roma, detta «del Papa» perché connotata da una statua del pontefice Clemente XII, che dette ad Ancona il privilegio del porto franco nel 1732.
Siamo arrivati in fondo alla discesa e concludiamo così questo giro a cui il viandante non può sottrarsi con un’altra piazza, piazza del Teatro, che inevitabilmente va ricordata, dominata dal Teatro delle Muse, largamente distrutto durante la Seconda guerra mondiale e, sebbene ricostruito con la lentezza geologica della burocrazia italiana, ora patrimonio attivo della città. Questa è la parte del colle Guasco a cui si contrappone l’impervia salita del colle Astagno o Capodimonte, da dove nel 1914 partì la «Settimana Rossa», che, sebbene definita da Giuliano Procacci «una rivoluzione provinciale guidata da duci provinciali», rimane ancora viva nei ricordi degli anconetani.
Sudditi non troppo turbolenti del dominio pontificio, gli anconetani cominciarono a scuotersi con l’occupazione francese e l’età napoleonica. Iniziarono allora anche ad Ancona le «pasquinate», la cui incarnazione più nota si ebbe però nel 1941, quando sulla statua di bronzo che introduce al porto, sul palmo della mano dell’imperatore Traiano, che partì da Ancona per conquistare la Dacia, fu posto un pezzo di pane con la scritta «Questo è el pa’ dell’impero. Magnalo te Traia’ che c’hai el stomigo de fero». È una battuta sintomatica del carattere anconetano, che sopporta a stento chi vuol mettersi troppo in evidenza («morirai d’una capita» si ribatte in dialetto a chi ostenta di saperla lunga).
Ancona è una città poco accogliente; forse l’esperienza della varietà delle genti che sono passate per il suo porto ha indotto alla prudenza, alla diffidenza. Se si frequenta la scuola d’élite per definizione, il liceo classico Rinaldini, non si è amici di tutti, ma solo di quella decina-quindicina di ragazzi e ragazze che si considerano propri pari. È un aspetto poco simpatico del carattere dell’anconetano, che non è intraprendente, né sa socializzare le proprie risorse. Ognuno per conto suo, afferrando le occasioni che si creano prevalentemente grazie a soggetti esterni, come oggi avviene con i croati e con i greci.
Lo scalo di Ancona è un’impresa multidivisionale, ripartita in quattro grandi rami di attività: i traffici mercantili, il trasporto passeggeri, la pesca e la cantieristica. Si tratta di un porto tradizionalmente «passivo», dove cioè il volume e il valore delle merci in entrata superano, e di gran lunga, quelli delle merci in uscita. La crisi economica lo ha colpito in modo severo, provocando dal 2009 una netta flessione degli scambi, alla quale negli ultimi tre anni è seguita una sensibile ripresa. È andata peggio al traffico passeggeri, il cui calo, iniziato nel 2010, non sembra essersi ancora interrotto. Al contrario che per le merci, in questo comparto il porto anconitano registra un numero di partenze largamente superiore a quello degli arrivi. Si tratta di turisti diretti, per lo più, in Croazia e Grecia, che si fermano ad Ancona giusto il tempo di imbarcarsi per lidi più appetiti. A questi si aggiunge chi viaggia a bordo delle navi da crociera di MSC, la sola compagnia, dopo la defezione di Costa nel 2014, a prevedere il capoluogo marchigiano fra le sue «toccate». Città a scarsa vocazione turistica, sebbene, come si è visto, depositaria di un patrimonio artistico e paesaggistico più che apprezzabile, Ancona si vede talvolta percorsa anche da rapsodici visitatori che, nelle giornate estive dal tempo incerto, abbandonano le spiagge della riviera del Conero o di Senigallia per curiosare lungo le vie del centro.
All’attività ittica è riservato lo specchio marino che circonda la Mole Vanvitelliana. Negli anni fra le due guerre qui si trasferì una nutrita comunità proveniente dal Sud della Regione, dove i bassi fondali e le spiagge sabbiose impedivano di gestire al meglio le prime «lancette» dotate di motore. Oggi la pesca è in buona misura appannaggio di pescatori originari dell’Africa settentrionale, esito di flussi migratori che irradiano riflessi importanti anche sulla composizione demografica della città.
Ultima, ma non certo per importanza, la cantieristica. Fra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del secolo scorso, modesti opifici destinati al raddobbo e alla costruzione di barche da pesca si affiancarono all’impianto principale, l’ex Arsenale pontificio, nel frattempo acquisito dalla famiglia genovese dei Piaggio. Da allora la navalmeccanica anconetana si è distribuita lungo due assi, secanti nella misura in cui i piccoli stabilimenti sono cresciuti in dimensioni e capacità operative, fino a offrirsi come fornitori di componenti per la fabbrica maggiore che, nel 1973, è confluita nella sfera delle partecipazioni statali (Fincantieri). Sensibili alle esigenze del mercato e attenti all’innovazione tecnologica, i più solerti fra gli impianti «minori» hanno saputo infine riconvertirsi in produzioni ad alto valore aggiunto (navi speciali, imbarcazioni da diporto). Una transizione che si è rivelata per nulla indolore. L’ingresso in comparti fortemente competitivi, congiunto alla crisi attraversata dal settore a cavallo del XXI secolo, li ha costretti infatti a profonde riorganizzazioni aziendali, anticipate o seguite da tribolati passaggi di proprietà. Attualmente la cantieristica anconitana sembra sulla via della ripresa, grazie al consistente portafoglio ordini di cui beneficiano sia lo stabilimento Fincantieri, sia le altre imprese del ramo.
La seconda leva a disposizione della città è il suo ateneo. Dal 2003 questo ha preso il nome di Università Politecnica delle Marche, che per un verso certifica il privilegio accordato alle «scienze dure» rispetto a quelle umanistiche, per un altro manifesta la volontà di imporsi quale leader nella regione.
È pensando all’università come a un vantaggio competitivo per il territorio che, allo scadere degli anni Cinquanta, Giorgio Fuà promosse la nascita dell’ateneo anconetano. Rampollo di un’agiata famiglia ebrea, Fuà era riuscito a sopravvivere alle leggi razziali e alla guerra, laureandosi a Pisa e conseguendo il dottorato di ricerca a Losanna. Le successive esperienze lavorative maturate al fianco di imprenditori come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, coniugate con un periodo trascorso presso la Commissione economica per l’Europa dell’Onu, contribuirono a formarne la visione prospettica che nel 1959 lo guidò a organizzare nel capoluogo marchigiano una sede distaccata della Facoltà di Economia di Urbino, primo mattone dell’ateneo che sarebbe nato dieci anni più tardi. Nel 1967 lo stesso Fuà fondò l’Istao, istituto di studi destinato a formare imprenditori di stampo olivettiano, orientati dunque verso obiettivi più ampi del mero profitto aziendale.
Università e Istao costituirono l’ambiente dove Fuà e il suo gruppo di allievi si interrogarono sui caratteri dello sviluppo economico italiano, in particolare quello legato ai distretti industriali. Questa impronta culturale, oggi giocoforza meno presente e avvertita, ha a lungo regalato all’ateneo anconetano una notorietà ben superiore alle sue dimensioni di scala.
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