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«Sardinia , wich is nowhere. Sardinia, wich has no history, no date, no race, no offering»: la Sardegna che non assomiglia a nessun altro posto. La Sardegna, che non ha storia, non ha età, non ha razza, nulla da offrire. Così se la immaginava, nel gennaio del 1921, David H. Lawrence. Un altro capitolo della sua ricerca d’una umanità «pura», non contaminata dalla civiltà moderna, resistente alle lusinghe di una vita più comoda e insieme più veloce.
I sardi considerano il suo Sea and Sardinia un credibile ritratto dei loro caratteri più profondi. Ci sono aggettivi come «silenziosi», «austeri», «arcaici» che li mandano in solluchero, e stanno a fondamento di quella terapeutica idea di sé in cui riconoscono la propria identità. Curiosamente, questa immagine, debitrice in qualcosa a un libro esecrato come La delinquenza in Sardegna che il lombrosiano Alfredo Niceforo scrisse alla fine dell’Ottocento, si è diffusa nel sottosuolo dei sentimenti e forse perfino del carattere dei sardi. Anche se qualcuno ha calcolato che, venendo nell’isola dal 5 al 10 gennaio, lo scrittore ci stette un totale di 144 ore, di cui 67 consumate in viaggi e 36 ore a Cagliari e Nuoro e nelle locande paesane. Il contatto con il paesaggio di case, pietre e campi dove aravano gli uomini sopravvissuti alla guerra – con il record di 118 caduti ogni centomila chiamati alle armi: in tutto 13 mila morti, la gran parte nella medagliatissima Brigata «Sassari» – erano tornati conservando la loro divisa grigioverde e le frettolose soste urbane che cosa gli avevano potuto far conoscere della «vera» Sardegna? Questo dell’aggettivo «vera» è una delle dominanti dell’autoritratto che si fanno i sardi – lo dico con qualche generalizzazione –, quasi sottintendendo che ci sono caratteri che restano sottotraccia, in un sottosuolo impenetrabile a sos anzenos, i forestieri, tutti quelli che vengono da fuori. Eppure questi caratteri sono quelli che li fanno quello che sono, diversi dagli «italiani», per non dire dagli stranieri che dal 1960 attivano un flusso turistico eminentemente stagionale-estivo e marino, praticamente costringendo i «sardi» (soprattutto quelli della Sardegna interna, innegabilmente più conservativa) a trasformare in folclore di facile consumo quella che chiamano la loro «civiltà».
Nel paesaggio di un’economia quasi tutta in crisi il turismo sembra una risorsa di cui non si può fare a meno: e se da un lato molti sardi continuano a guardare con sospetto il turismo perché i grandi investimenti sono, con qualche eccezione, capitale esterno e ai locali sembrano riservati solo ruoli di piccolo servizio («non vogliamo diventare un popolo di camerieri»: ora anche quella voce si è fatta flebile), dall’altro la legge che proibiva di costruire a meno di 300 metri – o addirittura un chilometro – dal mare è pressata dalla necessità dei sindaci di rianimare l’occupazione con il cemento purchessia. Del resto il patrimonio del folclore è così resistente che ogni paese, anche piccolo, organizza le sue sagre e, quando non ci sono, inventa i costumi per andare alle grandi feste religiose (Sant’Efisio il 1o maggio a Cagliari, l’Ardia di Sedilo in luglio, il Redentore a Nuoro a fine agosto) o laiche (la Sartiglia di Oristano a Carnevale, la Cavalcata Sarda di Sassari a fine maggio).
È nell’immediato «dopo» della Prima guerra mondiale che la Sardegna, nonostante le dure riforme piemontesi dell’Ottocento, volte ad abolire l’uso comunitario della terra (il feudalesimo finisce soltanto dopo il 1836, ultimo nell’Europa occidentale), esce dal suo lungo Medioevo. E forse sarebbe meglio dire nell’immediato «dopo» del fascismo, che lasciò l’isola appena più attrezzata di come l’avesse presa: nonostante una legge del 1924, che destinava un miliardo di lire alle opere pubbliche, ricompensa al gruppo di dirigenti sardisti passati rapidamente al fascismo. Ma «il sardismo è un fuoco che cova sotto la cenere» avrebbe detto Emilio Lussu: eroico capitano della «Sassari», nel 1929 era fuggito dal confino di Lipari con una epica impresa, compagni Carlo Rosselli e Fausto Nitti.
>> La Sardegna: i principali dati socio-demografici (Cagliari, Carbonia-Iglesias, Medio Campidano / Nuoro, Ogliastra, Olbia-Tempio / Oristano, Sassari)
Il diritto alla rinascita fu consacrato dall’articolo 13 nello Statuto d’autonomia speciale, votato il 31 gennaio del 1948 dall’Assemblea costituente, frettolosamente discusso in tre giorni. Fortunatamente l’articolo 13 impegnava lo Stato «col concorso della Regione» a «disporre un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola». Quel piano venne soltanto quattordici anni dopo, quasi in casuale coincidenza con l’elezione di Antonio Segni a presidente della Repubblica. La legge 588 dell’11 giugno 1962 destinava quattrocento miliardi alla politica di Rinascita: fiorì la speranza (gli slogan dicevano «Nella Rinascita c’è un posto anche per te»), s’insediarono grandi e piccole industrie ai due capi dell’isola: la più grande fu la petrolchimica Sir dell’ingegnere lombardo Nino Rovelli (con l’Aga Khan Karim uomo-copertina della Sardegna) insediata a Porto Torres, bilanciata con la Saras (petrolio) di Angelo Moratti nel golfo di Cagliari. Ma quando nel 1974 a Ottana, nel cuore della Sardegna, nacque un nuovo polo chimico, la storia della Rinascita era quasi finita. Subito si parlò di fallimento, e ancora se ne discute: ma non più dell’anno scorso Giorgio Macciotta, membro Pci del Consiglio dell’Economia, faceva notare che alla fine degli anni Settanta «negli stabilimenti petrolchimici sardi era dislocato il 20% delle capacità nazionali di raffinazione, il 22% della produzione di etilene, circa il 35% di quella del benzolo, il 17% delle principali plastiche e delle fibre; il totale dell’allumina e il 50% dell’alluminio primario venivano da Portovesme, e le quote della produzione primaria del piombo e dello zinco superavano il 50% del totale nazionale» (in Paolo Dettori e la questione sarda, a cura di P. Soddu e M. Brigaglia, Atti del convegno di studi, Sassari, 19 giugno 2016, Sassari, Edes. Centro studi autonomistici Paolo Dettori, p. 109).
Segnale finale, un dato del 1971: per la prima volta nella storia millenaria dell’isola gli occupati nell’industria erano più degli occupati nell’agricoltura.
Così il lascito più duraturo di quel tempo è quella che è stata chiamata la «catastrofe antropologica», un radicale capovolgimento dei modi di lavorare ma anche di pensare e di vivere di quasi tutta la società sarda: non ha cambiato di molto l’economia, ma con la scuola, la stampa e la tv ha adeguato l’umanità isolana ai fondamenti della civiltà «continentale» (per dire europea). Curiosamente, però, questa forzata integrazione ha portato il risveglio della rivendicazione «sardista», che nelle sue frange estreme chiede l’indipendenza dall’Italia (o al minimo la federazione con l’Europa delle Regioni). Il sardismo non cova più sotto la cenere, si è diffuso come un sentimento spontaneo fra molti sardi, diventato tutt’uno con il nuovo modo di pensare e sentire l’identità (di qui l’attenzione alla lingua, sa limba, come suo marchio primario).
Ora c’è la crisi: e la stiamo ancora attraversando. La Regione, che per i sardi è lo Stato in piccolo, anzi in concreto, non ce la fa più a governare quello che succede. La sua classe dirigente, che pure ha «regalato» all’Italia, come dice la gente, due presidenti della Repubblica, non sembra capace di fronteggiare il presente: i consiglieri della legislatura precedente non hanno ancora finito i processi per il malo uso dei fondi ai gruppi.
L’isola «galleggia» intorno ai suoi due centri maggiori, Cagliari (154.460 residenti nel 2016, ma 454.460 nella città metropolitana, Quartu Sant’Elena, 71.125, terza città dell’isola, è ormai attaccata) e Sassari (127.525): Cagliari, che può meglio utilizzare le armi di difesa della Regione, ha vinto la secolare battaglia per il primato isolano.
Oggi il reddito sardo pro capite (17 mila e 800 euro nel 2016) è appena sopra la media di quello meridionale e ben al di sotto della metà di quello del Centro Nord, e quanto al Pil, dice l’Istat, il risultato dell’anno scorso è stato il più negativo (insieme con quello della Valle d’Aosta) tra le regioni italiane. Questo trend è cominciato già prima della fine del secolo scorso, annunciato da una ripresa dell’emigrazione e più ancora dalla chiusura di una serie di fabbriche, che sembravano bilanciare la fine dell’industria mineraria. Una vera e propria dissoluzione del breve periodo di un’industria che ai tempi della monocultura petrolchimica (durata del resto meno di un ventennio, fra l’inizio dei Sessanta e la fine dei Settanta) pareva connotare il paesaggio allo stesso modo – su scala più ridotta, naturalmente, ma anche più ingombrante alla vista – dei settemila nuraghi che sono, loro sì, l’immobile brand della geografia isolana. Mentre scrivo queste righe, arriva sul tavolo «La Nuova Sardegna», il quotidiano sassarese fondato dalla borghesia progressista, mazziniana e cavallottiana della città nel 1891; ne cito i titoli di oggi: «Polo energetico addio, chiude l’ultima centrale»; nella pagina a fronte: «Minatori di Olmedo (bauxite) nuova doccia fredda: l’impianto non riparte», in prima: «Aeroporto di Alghero, ora si licenzia». E con Ryan Air in fuga restano migliaia di posti da riempire negli alberghi a bocca di mare.
Il dato più impressionante è il calo degli occupati nell’industria, ridotti a 90 mila già nel 2015, il 17% della forza lavoro isolana (565 mila occupati) contro il 34% di trent’anni fa. Il terziario, che ha i suoi focolai soprattutto nei centri maggiori, si gonfia oltre le medie italiane con supermarket sovrabbondanti e salari da poveri. L’agricoltura resiste soprattutto nel settore della pastorizia: la Sardegna ha oggi 3 milioni di pecore, e non so se sono solo quelle «residenti» in Sardegna oppure anche quelle che i pastori sardi, emigrando col gregge, già dal giro degli anni Cinquanta del secolo scorso hanno portato nell’Italia centrale.
Loro, i pastori, invece diminuiscono: dal 1980 al 2010 sono passati da 19 mila e 750 a 12 mila e 700 e sono scomparse quasi 7 mila aziende pastorali. Ma oggi anche la pastorizia è in crisi, pur avendo risolto in gran parte il suo più grosso problema, il millenario nomadismo. Ogni pecora, allevata allo stato brado, quando scendeva dalle montagne centrali alle pianure del Campidano, della Nurra e del Sàrrabus, camminava mangiando ettari di erba negli openfield che erano, praticamente, tutta la Sardegna: di qui una perenne lotta fra pastori e contadini che, diceva Alberto Lamarmora nel primo Ottocento, quando era scomparsa in tutta Europa ancora continuava da noi. Lo stesso governo piemontese, cercando di creare anche nell’isola una proprietà «perfetta» (come si diceva) della terra per metter su un po’ di borghesia magari assenteista ma comunque legata alla monarchia, fece nel 1820 una legge che finalmente agevolava tutti i proprietari di terra che volessero, cingendola di «muro, fosso o siepe», difenderla dal passaggio devastante delle greggi. Ora, dicevo, quel problema è praticamente risolto: nel 1969 il Parlamento dava vita a una Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal senatore Giuseppe Medici, che nelle sue conclusioni (1972) proponeva la creazione di un «monte pascoli» di 200 mila ettari, dove «stanzializzare» buona parte dell’esercito ovino. Era forse la novità più rivoluzionaria proposta dalla Commissione che, mandata in Sardegna con il compito di studiare soprattutto i fenomeni di criminalità e di banditismo e le misure per combatterli, aveva individuato nel nomadismo pastorale e nella necessità per il pastore di vivere da solo in campagna, una popolazione di diverse migliaia di uomini esposti al ricatto dei banditi o, in particolare, all’obbligo di custodire le vittime nella terribile stagione dei sequestri (l’apice fu toccato nell’estate del 1979, con una media di un sequestro ogni 25 giorni, e teatro soprattutto la Costa Smeralda e i territori marini frequentati dai «ricchi», in genere anche «continentali»). In realtà, il «monte pascoli» non passò mai dalla carta al territorio perché contemporaneamente la legge De Marzi-Cipolla, modificando il regime degli affitti rustici, rendeva più facile l’accesso alla proprietà dei terreni e incoraggiava i vecchi rentier a disfarsene a prezzi convenienti. Ma siccome – dicono gli aruspici – la pastorizia non sa vivere senza crisi, il dimezzamento del prezzo del latte ha complicato l’intero problema.
Del generale malessere di cui soffre oggi l’isola l’immagine più clamorosa è il veloce aumento dei piccoli comuni in pericolo di desertificazione: 31, molti dei quali hanno soltanto vecchi, donne e, con l’obbligato accorpamento delle scuole, bambini solo al pomeriggio. Un istituto di osservazioni demografiche calcola che degli attuali abitanti dell’isola, 1.658.138, nel 2080 ne resterà solo appena più d’un milione, regalandoci in cambio il primato della più bassa densità di popolazione in tutta Europa (dopo l’Islanda, menomale). L’anno scorso avevamo anche 464 ultracentenari: l’isola più vecchia del mondo, perché a Okinawa, la nostra concorrente, quasi tutti i vecchi non sanno quando sono nati.
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